E’ difficile capire, credo non solo per me, quale sia l’attuale strategia in politica estera degli Usa. Guardiamo alle ultime prese di posizione. Dopo l’assalto alle ambasciate di Usa e Francia a Damasco (Siria), il segretario di Stato Hillary Clinton ha dichiarato che “il presidente Assad ha perso ogni legittimità, non è indispensabile e non abbiamo alcun interesse nella sua permanenza al potere”. Dopo mesi di esitazioni e realpolitik, è quasi una dichiarazione di guerra.
Pochi giorni fa, è arrivata la notizia che gli Usa hanno deciso di sospendere e, in alcuni casi, di cancellare, fino a 800 milioni di dollari di aiuti destinati all’esercito del Pakistan. Ogni anno gli Stati Uniti versano al pakistan più di 2 miliardi di dollari (di cui 300 milioni per finanziare il dispiegamento di 100 mila soldati pachistani lungo la frontiera con l’Afghanistan), quindi il taglio di 800 milioni è molto importamte. Nel vicino Afghanistan, intanto, le truppe americane fanno i primi preparativi per il ritorno a casa, che dovrebbe essere completo e definitivo entro il 2014. Ancora qualche giorno indietro e ancora Hillary Clinton, che lancia un’imprevista offerto di dialogo ai Fratelli Musulmani dell’Egitto, che agli occhi di molti sono una forza pericolosa, soprattutto da quando non c’è più Hosni Mubarak a bloccare loro il passo.
Insomma, è come se l’amministrazione Obama avesse deciso di tagliare, o almeno ridurre, i ponti con la strategia che da diversi decenni l’America ha seguito per i propri interessi strategici: proteggere i regimi, qualunque fosse la loro natura, che in un modo qualunque contribuivano a garantirli. Resta da stabilire che cosa ha motivato il cambio di passo.
Le repressioni sanguinose di Assad sono state a lungo ignorate perché a Washington era dottrina comune che una deflagrazione della Siria, assai probabile in caso di caduta del dittatore e del regime alawita di cui è garante, fosse una disgrazia assai maggiore, con Israele alle porte e l’Iran in agguato. Che cos’è cambiato, oltre a un assalto all’ambasciata come gli Usa subiscono di tanto in tanto in molte parti del mondo? Può darsi che Obama non si fidi di Netanyahu e dell’attuale Governo israeliano. Può darsi che gli Usa diano per estinto il famoso “pericolo atomico” agitato per anni a proposito dell’Iran. O che abbiano già in mente una soluzione per il dopo Assad, chissà. Certo, il gioco è rischioso.
E lo è anche in Pakistan. Certo, scoprire che Osama bin Laden se ne stava da anni in Pakistan, che i servizi segreti pakistani un po’ sono alleati e un po’ no, che il Governo di Islamabad non gradisce la presenza della Cia che pure serve anche a proteggerlo… tutte queste cose non saranno molto gradite a Washington. Ma qual è l’alternativa per il Pakistan, un Paese enorme e complicato che ondeggia sempre più (vedete, se volete, altre cose in proposito) sotto la spinta dell’estremismo islamico? E la ritirata dall’Afghanistan, dove il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali Karzai, plenipotenziario del fratello a Kandahar, boss del traffico di eroina e collaboratore dei servizi segreti americani, è stato fatto fuori al terzo attentato?
E le aperture ai Fratelli Musulmani in Egitto? Un modo per spronare l’attuale regime militare, che sulla via delle riforme e della democrazia traccheggia un po’ troppo? Un tentativo in buona fede di agganciare quella che, comunque la si giudichi, è una forza importante? Anche qui, difficile dirlo, e impossibile prevedere le conseguenze. Ci vorrà ancora un po’ di tempo: intanto per realizzare se si tratta di una strategia o di una serie di mosse estemporanee, e poi per vedere se il disegno, ammesso che ci sia, è coerente. All’alternativa meglio non pensare: cioè che Obama abbia fin troppi problemi con l’economia e con il bilancio per occuparsi anche del mondo.