MAGHREB, DEMOCRAZIA COL FRENO TIRATO

“Se non agiamo subito, tutti i risultati delle rivolte popolari sono destinati a svanire”. Chi l’ha detto? Non un blogger né un attivista, bensì Mustafà Kamel Nabli, rispettato economista e da qualche mese governatore della Banca centrale di Tunisia. Così questo tecnocrate, formato dall’Università della California e dall’Ena di Parigi e fu ministro dello Sviluppo già negli anni Novanta, mostra di pensarla come i giovani egiziani che hanno di nuovo invaso piazza Tahrir per sventare l’insabbiamento delle riforme e del processo di democratizzazione.

Giovani egiziani in piazza Tahrir, al Cairo.

Le rivolte del Maghreb e del Medio Oriente battono il passo, questo è chiaro. E forse non era nemmeno lecito aspettarsi qualcosa di molto diverso. Lo slancio dell’insoddisfazione popolare ha trovato un primo, insormontabile ostacolo nella realpolitik internazionale. Gli Usa, soprattutto, ma non solo loro (pensiamo a Francia, Gran Bretagna), hanno lasciato affondare i regimi autocratici dell’Egitto (Hosni Mubarak) e della Tunisia (Ben Alì) e non si sono tirati indietro quando si è trattato di appoggiare la secessione anti-Gheddafi di una parte della Libia.

Altro discorso, però, quando la protesta ha investito la Siria: “Paese canaglia” ma in una posizione così strategica (tra Turchia, Giordania e Iraq, fedeli alleati degli Usa, più Libano e Israele) da far preferire la stabilità di un regime tirannico e sanguinario alle incertezze di una rivoluzione. Altrettanto vale per i Paesi del Golfo: la brutale repressione delle proteste, soprattutto in Bahrein (con la partecipazione dell’esercito dell’Arabia Saudita) ma anche in Kuwait e Oman, è passata nel silenzio delle cancellerie. Anche qui, questione di stabilità: economica, perché il Golfo è ancora il fulcro del mercato mondiale del petrolio; e politica, perché da queste parti (come pure sull’asse Siria-Iraq) incombe come un falco l’Iran che, dopo aver stroncato le “sue” proteste, è pronto a trarre profitto da quelle dei Paesi vicini. Così, il fremito giovanile e popolare, certamente globale, è stato spezzettato in tante questioni nazionali. E quindi frenato.

Dove l’indignazione della gente ha comunque ottenuto risultati importanti, come in Egitto e in Tunisia, l’entusiasmo è andato a scontrarsi con realtà difficili da modificare e con problemi che, paradossalmente, sono stati generati o acuiti proprio dalle manifestazioni per la democrazia. In Egitto due le questioni “vecchie”: il ruolo dei militari e quello dei Fratelli Musulmani. L’esercito ora tiene le redini del Paese e passerà la mano solo quando i suoi privilegi saranno garantiti. Non è roba da poco: l’apparato economico collegato alle forze armate (edilizia, cemento, carburanti, produzione di autoveicoli e di armi, industrie meccaniche), su cui non gravano tasse, vale tra il 10 e il 15% del Pil, che nel 2010 è stato di 270 miliardi di dollari. I Fratelli Musulmani sono l’altra faccia della medaglia: sono una forza importante e l’esercito non vuole farsene travolgere.

Mustafa Kamel Nabli, governatore della Banca centrale di Tunisia.

Alla categoria “problemi nuovi”, invece, appartiene il collasso di interi settori economici. In Egitto il turismo vale il 6% del Pil e da mesi le prenotazioni sono quasi azzerate. La Tunisia nel primo semestre 2011 ha già perso un miliardo e mezzo di dollari in turisti rimasti a casa. Da qui, e da altre dinamiche che coinvolgono le esportazioni, il cruccio del governatore Nabli.

Al disagio economico, infine, si aggiunge un problema inevitabile ma non meno spinoso. Come passare dalla dimensione orizzontale della rivolta popolare a quella verticale di uno Stato basato sul principio di rappresentanza? Gli interpreti dello scontento non sono diventati organizzazione. E le organizzazioni esistenti (partiti, gruppi, centri di potere) rimandano fin troppo al modello di società che ha generato le proteste. Gli Usa, il G8 e l’Unione Europea sono intervenuti per alleviare il disagio economico ma non c’è molto che possano fare per gli altri problemi. Come ha detto di recente il ministro Tremonti, “la democrazia non è McDonald’s”, non puoi tirarla su dal niente come un fast food.

E’ interessante notare, invece, che i passi più decisi verso la riforma sono stati avviati in due Paesi dove le rivolte sono state di portata più modesta: Giordania e Marocco. Monarchie già infuse di costituzionalismo e povere di petrolio. Sarà solo un caso?

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 7 luglio 2011

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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