EGITTO: L’ESERCITO TRA ISLAM E PROFITTO

Mohamed Hosein Tantawi, chi era costui? Beh, proprio sconosciuto non è. Maresciallo, comandante in capo dell’esercito, dal 1991 ministro della Difesa e ministro della Produzione Militare, è anche il capo del Consiglio supremo delle Forze Armate che da febbraio controlla l’Egitto, dunque è anche presidente della Repubblica ad interim. Detto in poche parole: Tantawi è oggi il padrone del Paese.

Un soldato egiziano osserva la folla durante i disordini di febbraio.

Anzi, più che il padrone, Tantawi è l’amministratore delegato dell’Egitto. L’esercito egiziano, infatti, ha due caratteristiche. E’ una discreta potenza militare: 500 mila uomini in servizio effettivo (dei quali 300 mila nell’esercito) e quasi altrettanti nella riserva; un vasto parco di mezzi corazzati (almeno mille carri armati Abrams), artiglieria di buon livello, una forza aerea che può contare su 200 F-16 di produzione americana (più velivoli francesi, cinesi e russi) e molti elicotteri. Alla Difesa lo Stato sacrifica circa il 5% del Pil, a cui però si aggiunge il contributo Usa: circa 40 miliardi di dollari dal 1979 (1,3 miliardi nel 2010), quando l’usanza prese il via. Soldi che però i militari egiziani devono spendere presso le industrie Usa e che sono dunque uno dei sistemi della Casa Bianca per finanziare le aziende nazionali.

L’altra caratteristica è che l’esercito egiziano è, in patria, una potenza economica. Un orientamenteo impresso dalla rivoluzione socialisteggiante degli anni Cinquanta, quando fu deciso che ogni fabbrica militare dovesse avere anche un settore dedito alla produzione civile. Ribadito e poi incentivato dalla smobilitazione seguita alla sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni: più di 400 mila soldati furono smobilitati in poche settimane e in gran parte inseriti appunto nelle industrie gestite dall’apparato militare.

Oggi l’esercito egiziano è forte nella produzione di generi alimentari, di automobili, di cemento e benzina, per non parlare dell’edilizia, dove sfrutta l’enorme vantaggio di poter impiegare nei cantieri i coscritti durante gli ultimi sei mesi della ferma. L’esercito, in Egitto, è il più importante datore di lavoro del settore pubblico, le sue aziende non pagano tasse e il solo ministero della Produzione Militare ha 40 mila impiegati. Poiché questo brulichìo di attività ricade sotto il segreto militare, gli esperti si sono consumati il cervello per stabilire quanto “valga” l’esercito egiziano rispetto all’economia globale del Paese. La stima ritenuta più affidabile è quella di Paul Sullivan, professore alla National Defense University di Washington: tra il 10 e il 15% del Pil, che nel 2010 è stato di 210 miliardi di dollari.

Il maresciallo Mohamed Hosein Tantawi.

E’ ragionevole supporre che tutto questo abbia contato nella rivolta che ha portato alla cacciata di Hosni Mubarak, che era a sua volta un ex generale. Difficile che una struttura così ramificata non avesse sentore di quanto si stava preparando. C’è chi si spinge più in là. La rivolta sarebbe stata fomentata dagli stessi militari, timorosi di perdere i vantaggi acquisiti a causa delle riforme varate da Gamal Mubarak, il figlio di Hosni.

Riforme è una parola grossa: certo, Gamal parlava di liberalismo e nel 2004 aveva lanciato un’ondata di privatizzazioni. Ma intanto gli affari veri li facevano gli amici suoi e di suo padre (che, secondo fonti giornalistiche Usa, avrebbe ammassato una fortuna personale pari a 70 miliardi dollari) e i militari restavano a bocca asciutta, con il compito però di tenere a basa lo scontento popolare che nasceva dai tagli al personale.

Dicono, gli stessi, che Tantawi decise di dire basta nel 2008, un anno segnato da centinaia di scioperi contro le “riforme” di Gamal. E che la rivoluzione di piazza Tahrir, esplosa nel febbraio scorso, fosse in pentola già da allora. Comunque sia (e questa lettura ha certo tratti credibili) pare difficile che, come teme qualcuno in europa e negli Usa, un’organizzazione come questa possa consegnarsi all’estremismo islamico o ai Fratelli Musulmani. L’amicizia degli Usa, i rapporti con l’Europa (il solo turismo vale, in Egitto, il 6% del Pil) e, più in generale, l’assetto globale della società, fanno pensare esattamente il contrario. Basta dare un’occhiata all’Iran, assai più ricco di risorse naturali ma inchiodato a una modesta fase di sviluppo, per capire che l’esercito egiziano è troppo ben abituato per cadere in quella trappola. Molto semplicemente, non gli conviene. Ne sono convinti anche gli Usa che,  con Hillary Clinton, hanno invitato i Fratelli Musulmani al dialogo. E’ l’ipotetica carota, il bastone c’è già.

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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