Ci hanno tolto tutto. Le donne spesso sono state anche violentate. Ci hanno radunati in un campo, in un porto, in un capannone. Poi, un giorno, ci hanno costretti a imbarcarci. Di storie come questa, tra i profughi partiti dalla Libia, approdati a Lampedusa su un qualche barcone e ora smistati nelle diverse regioni, la Caritas e i giornali ne hanno raccolte molte: da Aversa a Bergamo, da Torino a Comiso, si ripetono tutte uguali con agghiacciante frequenza.
Questi profughi in tempo di pace erano le braccia «usa e getta» per l’industria e per la classe media cresciute all’ombra della dittatura e del petrolio. In tempo di guerra sono diventati gli scudi umani del colonnello Gheddafi. E il Raìs, da più di quarant’anni maestro di terrorismo e di sopravvivenza, li usa con grande astuzia. Osserviamo la provenienza di queste persone. Sono in gran parte eritrei, nigeriani, somali, sudanesi. Uomini e donne costretti a lasciare i Paesi d’origine a causa di guerre, violenze e dittature di ogni genere. Se fossero arrivati in Italia in modo più normale, avrebbero forse ottenuto ugualmente lo status di rifugiato politico o una delle diverse forme di protezione previste dai trattati internazionali.
Gheddafi lo sa. E sa quale problema sia, per l’Italia che è in prima linea e per l’Europa intera, il controllo dei flussi migratori. Quale impatto abbiano le immagini dei barconi che rovesciano a terra gente povera e spaurita, ma decisa a non tornare indietro, perché alle spalle non ha nulla. La Libia, già terra di sfruttamento, è un Paese in guerra. L’Eritrea è un incubo di campi di concentramento, la Somalia è dominata dalle corti islamiche, il Sudan è tormentato da guerre e secessioni, in Nigeria impazzano gli scontri etnico-religiosi. Uniti, i due fattori hanno un effetto dirompente: non possiamo accogliere tutti, ma sarebbe disumano respingere chi arriva. E il ricatto è chiaro: fermate la guerra, se volete che noi fermiamo i barconi.
È una strategia cinica, ma efficace. Non è azzardato pensare che proprio la questione delle migrazioni, e la paura di incentivare un fenomeno che anche in condizioni normali è difficile da regolare, abbia in qualche modo frenato le operazioni militari contro l’esercito di Gheddafi. Proprio sull’accoglienza e sul destino dei profughi si è prodotta qualche mese fa una vera crisi diplomatica tra Francia e Italia, poi faticosamente ricomposta. E nel nostro Paese l’accordo tra Stato e Regioni per la distribuzione dei profughi sul territorio nazionale ha richiesto lavoro e pazienza.
In apparenza, ci sono solo due modi per annullare il ricatto del Colonnello. Incentivare le operazioni militari fino a cacciarlo al più presto da Tripoli. Oppure, accogliere le sue richieste e ritirarsi dalla coalizione Nato che lo attacca. La prima ipotesi è difficile da perseguire: Francia, Gran Bretagna e Italia sono già molto impegnate dal punto di vista militare (e non solo in Libia, come la morte in Afghanistan di un altro soldato italiano crudelmente ci ricorda), difficile per loro fare più di così, o chiedere maggiore impegno agli Usa sempre più riluttanti. La seconda non dà alcuna garanzia su ciò che poi Gheddafi farebbe davvero: con i profughi, con il petrolio, con l’esercito.
In realtà, però, c’è una terza via: perseguire il cambio di regime in Libia e gestire con ordine e civiltà l’afflusso dei profughi, fino a quando si potrà trattare con una Libia più democratica, civile e affidabile di quella del raìs. Possiamo dire con un orgoglio, anche di fronte all’Europa, che è proprio quanto l’Italia va facendo ormai da molti mesi. E da sola.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 3 luglio 2011