Nel giro di pochi giorni, i Paesi europei sono stati trattati due volte da smidollati. Prima è stato il segretario alla Difesa degli Usa, Robert Gates, a dire: “La più grande alleanza militare della storia (la Nato, n.d.r) è impegnata da sole 11 settimane in un’operazione contro un Paese male armato e poco popolato (la Libia, nd.r) e già molti degli alleati sono senza munizioni e, tanto per cambiare, chiedono agli Usa di provvedere”. Poi, a ruota, è intervenuto Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato, che ha ribadito: “Quanto a sorveglianza, intelligence e armi di precisione, la missione in Libia dipende dagli Usa”.
Si può essere pacifisti e contrari agli eserciti, o anche non pacifisti ma contrari alla guerra in Libia. Resta però un fatto: l’interesse strategico dell’Africa del Nord (quindi, Libia compresa) per l’Europa è altissimo, e comunque la guerra c’è ed è alle porte, appena al di là del mare. Se l’Europa non si mobilita in queste condizioni, quando mai vorrà, saprà o potrà mobilitarsi? E’ accettabile che una missione militare internazionale di non elevata intensità (quella in Kosovo del 1999 era assai più massiccia, e in ogni caso non si tratta di mobilitare migliaia di uomini in un fronte lontano come l’Afghanistan) abbia già il fiato corto?
Ancora una volta emerge la realtà dei fatti: l’Europa sta nella Nato convinta che la Nato sia “cosa Usa” e che gli Usa, quindi, finiscano prima o poi per provvedere. Anche quando si tratta del nostro cortile sul retro, come i Balcani negli anni Novanta o il Maghreb di questi mesi. Basta dare un’occhiata alle cifre: la Nato chiede che i suoi membri spendano per la difesa almeno il 2% del Prodotto interno lordo. Gli Usa spendono il 5% ma tra gli europei solo 4 Paesi raggiungono e superano il fatidico 2%: Francia, Gran Bretagna, Bulgaria e, paradossalmente vista la crisi finanziaria, la Grecia (3,3%). L’Italia era nel 2010 intorno all’1,8%, la media europea è intorno all’1,6%, in coda a tutti quanto a spesa ci sono Austria (0,94%), Irlanda (0,58%) e Malta (0,50%).
Il problema è che negli Usa l’impegno militare internazionale, soprattutto quando non mirato a proteggere o implementare interessi americani, è visto con sempre maggior scetticismo, come dimostrano le difficoltà che Barack Obama ha incontrato per ottenere il nuovo finanziamento delle missioni, Libia compresa. E non solo: sta per uscire di scena la classe politica che ha vissuto e combattuto la Guerra Fredda e che, quindi, guarda ancora alla Nato e ai suoi impegni come a un presidio dell’Occidente. Domani gli Usa potrebbero essere amministrati da politici assai più preoccupati, per esempio, di contenere la Cina in Asia che di eliminare Gheddafi (o Assad, visto come vanno le cose) dall’Africa del Nord. E l’Europa che cosa farebbe, in quel caso?
Come per molti altri problemi (dall’immigrazione alla crisi economica), la risposta, forse, non è “meno eserciti” ma “più Europa”. Più integrazione e più collaborazione, anche in campo militare. Per ridurre le spese e incrementare l’industria tecnologica continentale. In Europa vengono prodotti 21 tipi diversi di veicoli corazzati, 6 diversi modelli di sottomarino e 3 di cacciabombardieri, per non parlare dei sistemi d’arma, degli aerei da trasporto o dei veicoli militari non corazzati. A che serve? A chi serve? Non è più facile immaginare di avere un solo tipo di caccia o di carro armato per tutti, invece di sognare un esercito per tutti? Francia e Gran Bretagna, storiche rivali, danno il buon esempio: nel 2010 hanno siglato un patto di collaborazione militare che prevede sforzi congiunti nei test nucleari, nei trasporti aerei e nel genio. L’unione, qui più che altrove, fa la forza.