PERCHE’ OBAMA NON “VEDE” L’EUROPA

Essendo un cittadino americano di pelle nera, nato alle Hawaii da un padre indonesiano che gli ha dato un secondo nome islamico, il presidente Obama trova facilmente modo di fraternizzare con i popoli e i Paesi più diversi. Se poi c’è anche un lontano legame familiare come in Irlanda (Falmouth Kearney, nonno del suo nonno materno Stanley, partì nel 1850 da Moneygall alla volta dell’America), il gioco è fatto: Obama può trasformarsi in O’Bama e metter mano a una pinta di birra scura.

Il presidente Barack Obama.

Nemmeno le ovazioni raccolte a Dublino, però, riescono a nascondere la perdita di peso specifico che l’Europa ha subito nella pur vasta gamma degli interessi strategici Usa. L’itinerario del tour che porterà Obama al G8 di Deuville parla chiaro: Irlanda (per ragioni interne: sono 50 milioni gli americani di origine irlandese), Gran Bretagna (l’unica tappa davvero importante, la collaborazione con Londra è sempre fondamentale per Washington, vedi Libia), la Francia per il G8 e infine la Polonia, Paese che in ogni caso non vede l’ora di ospitare le basi militari americane (tra cui forse quelle dei caccia F16 sottratte all’Italia) e le installazioni dello scudo antimissile.

Non un granché, se solo pensiamo ai problemi e anche alle sfide, economiche e politiche, del nostro e del loro continente. Poca roba, se la confrontiamo agli argomenti di cui la Casa Bianca discute quasi ogni giorno con la Cina, la Russia, l’India e gli altri Paesi emergenti. Anche il G8, formalmente organizzato dalla Francia, ha un’agenda dettata quasi al completo dall’impostazione delineata da Obama, a partire dalla proposta di un Piano Marshall per i Paesi in subbuglio sulla sponda Sud del Mediterraneo per finire al cosiddetto E-G8 consacrato al ruolo sempre crescente di internet. Tema quanto mai strategico, che intercetta tendenze fondamentali dell’economia (la rete «pesa», negli Usa, per quasi il 4% del Pil) e della politica (le rivolte del Maghreb e del Medio Oriente devono molto al web), e nel contempo pare fatto apposta per mettere un dito nell’occhio della Cina, sempre impegnata nella vana impresa di mettere sotto controllo la rete e milioni di irrequieti cybernauti.

Altri sono, insomma, gli orizzonti attuali di Obama. Da un lato il G20, dove sono presenti interlocutori ormai decisivi sul piano globale, dall’Arabia Saudita all’Indonesia, dal Brasile alla Corea al Sudafrica, e dove gli antichi quarti di nobiltà contano ormai poco di fronte a quella che possiamo smettere di chiamare «crisi» e che si presenta piuttosto come una trasformazione epocale dell’equilibrio planetario. Dall’altro il confronto con la Cina, l’unica altra superpotenza oggi immaginabile in un mondo che gli Usa da un secolo sono abituati a modellare a propria immagine e somiglianza.

Stretto fra troppi o troppo pochi interlocutori, Obama si sta destreggiando con molta abilità. E il Medio Oriente, così presente in questo suo viaggio europeo, gli sta offrendo aperture preziose e fino a qualche tempo fa inattese.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 25 maggio 2011

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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