FAR FINTA DI NIENTE NON AIUTA ISRAELE

La classe politica d’Israele, e in particolare il pallido Governo Netanyahu-Lieberman, dovrebbe fare un monumento agli ideologi di Hamas. Perché solo l’odio e le minacce di quei quattro folli, ormai, restano a far da foglia di fico all’incapacità dello Stato ebraico di darsi una politica vera, moderna, realistica. Qualcosa, insomma, che vada oltre l’eterno grido di “al lupo al lupo!” ogni volta che si tratta di uscire dall’immobilismo garantito dalla potenza di fuoco di Tsahal.

Bibi Netnayahu, primo ministro d'Israele, con Barack Obama, presidente degli Usa.

Per sentirsi al sicuro, Israele ha dovuto disseminare di posti di blocco e di coloni (430 mila, secondo le ultime statistiche) i Territori occupati nel 1967, impadronirsi di parte della terra appartenente ai palestinesi sconfitti, costruire il Muro, dotarsi della bomba atomica, assemblare (in parte con i quattrini dei contibuenti americani) un esercito e un’aviazione che sono di gran lunga i più potenti del Medio Oriente. Ha purtroppo avuto, a causa dell’ottusità politica dei palestinesi, ottime ragioni per farlo. E poi ha scoperto la gran convenienza politica di ripetere che altro non si poteva fare.

Oggi, però, tutto questo suona un po’ patetico. Dopo la caduta del Muro di Berlino il mondo ha cominciato a cambiare. Prima l’Europa dell’Est, poi l’Asia, infine l’America del Sud. Adesso, ed era ora, tocca al Medio Oriente. Rivolte dappertutto, l’Egitto e la Tunisia con nuovi regimi e nuovi assetti, la Libia sulla via di cacciare Gheddafi. Non è tutto rose e fiori? Ovvio. Rischiamo un ritorno in forze dell’islamismo? Anche. Ma il cambiamento c’è, ed è forte. Ed è probabilmente appena cominciato.

La risposta di Israele, l’unica vera democrazia della regione, la nazione di gran lunga più moderna e tecnologicamente avanzata dell’area, qual è? Far finta di niente. Lieberman continua a ripetere che il vero pericolo è “l’iranizzazione della regione”, quasi una barzelletta se uno solo pensa all’inquietudine politica degli iraniani (il movimento “verde” ha ripiegato sotto i colpi del regime ma non è certo scomparso), alla lotta ormai aperta in corso tra il presidente Ahmadinejad e l’ayatollah Alì Khamenei, Guida Suprema religiosa del Paese, e alla cronica crisi economica cui Teheran non riesce a dare risposta. Per dar retta ai vari Lieberman, giova ricordarlo, avremmo dovuto bombardare o invadere l’Iran, a caccia di una bomba atomica di cui non parla più nessuno. Intanto, proprio accanto a lui, si consuma persino un’ipotesi di riunificazione tra Fatah e Hamas che fino a poco tempo fa pareva impossibile.

Miliziani di Hamas con uno dei missili "Grad" usati controp Israele.

Ma far finta di niente mentre tutto intorno cambia è una pessima strategia. Netanyahu è andato a Washington senza uno straccio di proposta in tasca e con l’unica speranza che gli Usa restassero fermi sulle posizioni del povero George W. Bush, il Presidente che, negli anni della guerra in Iraq, era riuscito a venire 6 volte in Italia e una sola a Gerusalemme, alla scadenza del suo secondo mandato. Come dire: israeliani, fate un po’ quel che vi pare. Ma Barack Obama non è Bush e nemmeno potrebbe permetterselo, con quel che succede in giro. Se Israele non vuole o non sa muoversi, lui fermo non vuol stare. Così ha scelto di appoggiare le rivolte in Egitto e in Tunisia, di delegare a Francia e Gran Bretagna la pratica Gheddafi, di mobilitare anche il G8 per un Piano Marshall dedicato al Maghreb.

Obama, ovviamente, non è un idealista e nemmeno uno sprovveduto. In nome degli interessi strategici Usa, si guarda bene dal mettere in crisi il rapporto con la casa reale dell’Arabia Saudita, una dittatura politica e religiosa che però ha le mani sul petrolio e fa da baluardo contro l’Iran. E a questo sacrifica anche i poveri sciiti del Bahrein, presi a fucilate dall’esercito saudita intervenuto a difendere il regime sunnita del Paese. La sua proposta di risuddividere il territorio tra palestinesi e israeliani tornando ai confini del 1967 (la cosiddetta “linea verde”) è discutibile, forse troppo radicale, ma contiene una gran verità: se Israele vuole prendersi tutta Gerusalemme (anche la cosiddetta Gerusalemme Est, cioè), la pace non si farà mai. Però Obama sta nel cambiamento e, anzi, cerca di cavalcarlo. Netanyahu sta lì a baloccarsi con la nostalgia per Mubarak, Ben Alì e Gheddafi. Perché a quanto pare la sicurezza dell’unica democrazia del Medio O riente riposa sul fatto che resti l’unica, cioè che nessun altro Stato della regione diventi (o meglio: pensi di diventare) democratico.

Chi vuol bene a Israele deve solo sperare che dalle parti di Gerusalemme qualcosa cambi, e in fretta. Come ha scritto il grande storico israeliano di origine polacca Zeev Sternhell, combattente nella guerra dei Sei Giorni, nella guerra del Kippur e nella Guerra in Libano, sul quotidiano Haaretz: “Uno Stato palestinese sovrano è oggi una necessità, proprio come il Sionismo lo fu. E circa metà della società israeliana oggi concordo con l’opinione pubblica dell’Occidente e con i Governi dell’Occidente sul principio che gli arabi palestinesi hanno lo stesso diritto all’indipendenza e alla sovranità che hanno gli ebrei israeliani. Se Netanyahu fosse un leader degno di questo nome, uno capace di capire la profondità del processo che si sta svolgendo sotto il suo naso e di volgerlo a proprio vantaggio, non penserebbe e parlerebbe  come un leader del movimento giovanile del Betar (movimento della destra ebraica radicale fondato nel 1923 in Lettonia da Zeev Jabotinskij, n.d.r)”.

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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