FIAT, IL FUTURO E OBAMA DICONO USA

Sulla questione Fiat-Chrysler, e per conseguenza sul dibattito Marchionne-Governo, Torino-Detroit e così via, pesa la conoscenza in genere scarsa degli accordi firmati nel 2009 dall’azienda italiana con il Governo americano. Accordi decisivi per la sopravvivenza delle due case automobilistiche (Fiat e Chrysler). Accordi che stabiliscono condizioni precise, impegni che la Fiat ha preso nei confronti della Casa Bianca e che dovrà rispettare. Un fatto che, da solo, riduce il Governo italiano (questo Governo come qualunque altro Governo) al ruolo di interlocutore importante ma non decisivo.

Barack Obama e Sergio Marchionne in visita allo stabilimento Chrysler di Detroit (Usa).

Barack Obama e Sergio Marchionne in visita allo stabilimento Chrysler di Detroit (Usa).

Il patto tra Governo Usa e Fiat, in buona sostanza, è modellato su due piani: uno finanziario e uno industriale.

Piano finanziario: dopo la bancarotta Chrysler, e proprio per condurre in porto l’accordo con Fiat, il Governo americano concesse un prestito di 5,3 miliardi di dollari e quello del Canada un altro prestito di 1,3 miliardi di dollari. Oggi, infatti, i due Governi sono azionisti del Gruppo Chrysler-Fiat (al 9,2% e al 2,3% rispettivamente). Nei mesi scorsi, inoltre, il Gruppo ha chiesto un ulteriore prestito al Dipartimento dell’Energia Usa: 3,5 miliardi di dollari per sviluppare motori meno inquinanti. Ottenuti nel momento più acuto della crisi mondiale, quei prestiti costano cari: il tasso medio è dell’11% e nel solo 2010 il Gruppo Chrysler-Fiat ha pagato 1,23 miliardi di dollari di interessi passivi. Dal punto di vista finanziario l’obiettivo è di andare in Borsa entro il 2011. Interessa a Marchionne, per liberarsi di un vincolo ormai pesante, e interessa a Obama a ai canadesi, che sperano di recuperare i soldi prestati a suo tempo, magari con qualche plusvalenza.

Piano industriale: la Fiat oggi detiene il 25% del capitale Chrysler, con la dichiarata intenzione di arrivare prima o poi al 51%.  Il percorso, però, prevede tappe obbligate. Entro il 2013 devono infatti verificarsi tre Performance Event ben precisi:

1.         la Fiat deve far certificare e iniziare a produrre negli Usa il primo motore ( questa condizione è già stata rispettata: il motore Fire è stato autorizzato e così la Fiat è passata dal 20 al 25% del capitale azionario Chrysler).

2.         la Fiat deve vendere auto per un valore di 1,5 miliardi di dollari fuori dei Paesi del Nafta (North American Free Trade Agreement)

3.         il gruppo Chrysler-Fiat deve ottenere l’autorizzazione a produrre in America una vettura basata su una delle piattaforme Fiat e tale da garantire percorrenze di almeno 40 miglia per gallone (circa 17 chilometri con un litro).

La realizzazione di  ognuno di questi step comporta per la Fiat l’acquisizione gratuita di un 5% di azioni Chrysler. Per il 16% necessario a passare dal 35% (al compimento dei tre step) al 51%, la Fiat ha un diritto di prelazione. In nessun caso, però, la casa torinese potrà superare il 49,9% delle azioni se non avrà restituito il prestito al Governo americano.

In tutto questo, come si vede, il Governo italiano c’entra poco, e può fare poco. Può sperare, come facciamo tutti, che l’Azienda italiana abbia successo e che parte di quel successo si trasferisca da noi in termini di occupazione e di distribuzione della ricchezza. Certo, se il ministro Tremonti avesse soldi da spendere in incentivi o in politiche di sostegno all’industria, un qualche condizionamento sarebbe magari ipotizzabile. Ma così…

D’altra parte, uno sguardo ai numeri ci dice che la filosofia Fiat spazia ormai ben oltre il nostro Paese, a dispetto di tutta la propaganda confindustriale che si è fatta sul “caso Mirafiori”. In Italia ci sono 27 mila dipendenti Fiat; all’estero (tra Brasile, Argentina, Polonia, Turchia e India) ce ne sono più di 24 mila. Se a questi aggiungiamo i 29 mila dipendenti Chrysler-Fiat negli Usa e in Messico, non fatichiamo a capire che il peso specifico delle attività del Gruppo si sta inesorabilmente trasferendo.

Lo skyline di Detroit.

Lo skyline di Detroit.

Oltre al corpo, si trasferiranno anche il cuore e il cervello, cioè i quartieri generali della progettazione e della direzione d’azienda? A rigor di logica, pare inevitabile. Chi vorrebbe avere gli interessi in America e l’ufficio in Italia? Soprattutto progettando, come fa Marchionne, di aggredire il mercato della Cina, oggi il più florido e promettente del mondo?

Tutto questo lo sa bene anche il nostro Governo, che infatti si guarda bene dal fare discorsi chiari. Cito l’intervista della Stampa a Paolo Romani (ministro per lo Sviluppo economico) dopo l’incontro tra Silvio Berlusconi e Marchionne: “Marchionne ci ha confermato che di questi argomenti (il trasferimento negli Usa della direzione Fiat, n.d.r) si parlerà non prima del 2014”.

Tutt’altro che una smentita, dunque, piuttosto una conferma. Se ne parlerà nel 2014 per una ragione ben precisa: una volta rispettati i tre Performance Event descritti nel pezzo precedente e restituiti i prestiti ottenuti dal Governo Usa e da quello del Canada, Marchionne avrà una finestra di tre anni (2013-2016) per acquisire il 16% che dovrebbe portarlo dal 35% al 51% delle azioni Chrysler. Ecco perché si parla del 2014. Ecco perché lo spostamento a Detroit, dopo l’incontro tra il nostro Governo e il vertice Fiat, pare ancor più probabile di prima.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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