Di Dilma Roussef, nuova presidentessa del Brasile, si sa per certo una sola cosa: è il capolavoro politico del suo predecessore, Luiz Inacio Lula da Silva. Non potendo candidarsi per la terza volta, Lula ha sfruttato l’immensa popolarità di cui gode (82% di gradimento) per scovare una candidata improbabile e quasi anonima, imporla al Partito dei lavoratori (da lui e da altri fondato nel 1980), presentarla al Paese e aiutarla in modo decisivo a vincere. Sembra facile ma a Lula è riuscito ciò agli altri presidenti democraticamente eletti non riusciva dal 1930.
Per la Roussef (che non dovrebbe incontrare difficoltà col Parlamento, dove la maggioranza governativa è schiacciante) il primo problema è dunque affrancarsi dall’immagine di manager dalla scarsa esperienza politica (solo due volte al Governo in ministeri tecnici), scelto dall’alto e, forse, teleguidato da un Lula ancor giovane (ha 65 anni) e comunque padrone degli equilibrii politici del Brasile. Lungi dall’essere limitata al prestigio della signora Roussef, la questione investe il futuro dell’intero Paese.
E’ noto che il Brasile è ancora felicemente alle prese con una lunga stagione di sviluppo che l’ha portato a diventare l’ottava potenza economica del mondo. Dopo l’inevitabile flessione del 2007-2008, il Prodotto interno lordo è tornato a crescere: del 5% nel 2009, forse del 7% alla fine di questo 2010. Lula ha compiuto il miracolo mettendo da parte i toni enfatici da sindacalista arrabbiato e puntando decisamente sulla crescita con un rigoroso controllo della spesa pubblica e dei tassi d’interesse. I programmi a favore delle fasce più povere della popolazione sono stati numerosi ma quasi sempre a carattere assistenziale.
Ora i brasiliani sono pronti a passare all’incasso. Tanto lavoro (le esportazioni sono cresciute del 20% per diversi anni consecutivi) e tanti sacrifici (l’inflazione è passata dal 13 al4%) stentano a produrre cambiamenti positivi e duraturi in una vasta parte della popolazione. A fronte di una borghesia brillante e rampante c’è il 25% dei brasiliani che ancora vive sotto la soglia della povertà. Per un 10% di garantiti che si dividono il 43% della ricchezza collettiva, c’è un 10% che dispone solo dell’1,1%. L’agricoltura, che ancora dà lavoro al 20% della popolazione, è sempre in attesa di una riforma agraria più volte promessa e mai realizzata.
Questo non per negare l’azione riformatrice di una sinistra anomala (una sinistra, per dirla con una battuta, capace di riprendere e mettere a profitto idee di destra) che ha avuto effetti anche strepitosi, ma per dire che alla Roussef non mancherà certo il lavoro. Si dice nello sport che il difficile non è arrivare in testa alla classifica ma rimanerci. Proprio questo tocca alla Roussef: conservare lo slancio positivo cominciando a distribuire più equamente i vantaggi, gratificare le regioni povere (il Nord-Est e il Nord, dove ha ereditato i voti di Lula) senza penalizzare o irritare il Sud o le élite imprenditoriali delle grandi città (dove ha vinto l’altro candidato arrivato al ballottaggio, José Serra) che sono state il motore e la mente della rincorsa brasiliana al benessere.
Dal punto di vista delle doti di navigazione politica, come detto, la Roussef è ancora un mistero. Per qualche tempo godrà dell’effetto elastico generato dall’appoggio di Lula ma poi dovrà galleggiare in mare aperto. Auguriamole il meglio: la prima economia dell’America latina e la seconda dell’emisfero occidentale meritano e necessitano di una mano sicura.
Pubblicato su Avvenire del 2 novembre 2010