Si può scatenare una guerra per un albero? All’ombra di questa domanda riposano i tentativi, piuttosto evidenti sia da parte di Israele sia da parte del Libano, di derubricare le sparatorie di ieri e i quattro morti (tre libanesi, uno israeliano) al rango di incidente su una frontiera come sempre assai tesa. D’altra parte le forze Onu a guida italiana hanno confermato che gli israeliani stavano operando sul proprio lato del confine (per abbattere l’albero che copriva la visuale e installare alcune telecamere di avvistamento), quindi con pieno diritto.
E’ meglio non farsi ingannare dalle grida e dalle accuse che gli uni e gli altri si rivolgono. Nessuno vuole acuire la crisi, nessuno vuole davvero lo scontro. A parte forse il solito Ahmadinejad, che dal ridotto di Teheran cerca di usare il Libano come pretesto per l’ennesima e infruttuosa campagna anti-Israele. C’è un elemento che, invece, andrebbe meglio analizzato. Alla battaglia hanno partecipato solo le truppe dell’esercito regolare libanese, mentre le milizie di Hezbollah sono rimaste a guardare, nonostante il teatro delle operazioni fosse la zona del fiume Litani, tradizionale feudo degli sciiti.
E’ un fatto importante, soprattutto alla luce di alcune realtà che l’opinione pubblica internazionale, inchiodata sulla vecchia e superata equazione “Hezbollah = Iran”, stenta ad accettare. Di Hezbollah, in particolare, si stenta a riconoscere l’ormai acclarata dimensione “nazionale”. Da tempo, e soprattutto dopo la guerra con Israele del 2006 (quando il già pericolante Governo Olmert-Livni fece il clamoroso errore di accanirsi su tutto il Paese e non solo su Hezbollah), la milizia sciita ha acquisito uno status di difensore del Libano che persino la marcata identità religiosa, in un Paese frammentato da 18 confessioni ufficialmente riconosciute, fatica a sminuire. Di fatto, la maggior parte dei libanesi considera Hezbollah il vero esercito del Libano, l’unico capace di tenere a bada Israele, e guarda all’esercito vero e proprio come a una superforza di polizia destinata a tenere sotto controllo le inevitabili rivalità etniche e religiose. Giusto o sbagliato, questo è il sentimento collettivo. Ignorarlo è impossibile.
In secondo luogo, e altrettanto impossibili da ignorare, sono gli sforzi che dall’interno e dall’esterno del Libano vengono fatti per conservare l’unità del Paese e allontanare il fantasma della frammentazione su base religiosa, l’incubo di tutti i libanesi. Da questo punto di vista è stata molto significativa la visita di Stato congiunta realizzata nei giorni scorsi dal re Abdallah dell’Arabia Saudita e del presidente Bashar al Assad della Siria. Un chiaro monito a lasciare le cose come stanno, con il Governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri (arabo sunnita, filo-saudita e filo-occidentale), la grande capacità di influenza degli sciiti e di Hezbollah e il presidente Michel Suleiman, ex capo dell’esercito, a fare da stanza di compensazione. Un monito che vale non solo per le numerose fazioni libanesi ma anche per gli interlocutori esterni, Israele in primo luogo. Non c’è da stupirsi, quindi, se Hezbollah per una volta non spara e se Israele, tagliato il suo albero, si accontenta di qualche proclama.