Vogliamo davvero aiutare i cristiani perseguitati nel mondo? Parliamo un po’ meno di religione e molto più di politica. Sembra un crudele paradosso e non lo è. Crudele è, al contrario, tenere 200 milioni di cristiani, che nei più diversi Paesi sono fragile e tormentata minoranza, inchiodati allo schema rigido e inutile dello “scontro di civiltà”. Se il problema sta in questa o quella “civiltà”, o peggio ancora in questa o quella fede, allora c’è poco da fare. Pensiamo forse di poter convertire o sconfiggere sul campo un miliardo di indù o un miliardo e 200 milioni di musulmani? O crediamo che la guarigione delle loro corpose frange intolleranti, formatesi in secoli di esclusivismo etnico e religioso, possa avvenire dall’oggi al domani?
Pensarlo è ridicolo e ha l’unico effetto di spingerci nel vicolo del vituperio sterile, della condanna senza effetti, del senso di superiorità magari legittimo ma in nulla utile alla causa dei cristiani che soffrono, in Africa e in Asia soprattutto. Sarebbe invece il caso di dare ascolto ai fatti e ricordare che da sempre i biechi interessi materiali amano avvolgersi nelle nobili bandiere del popolo, della patria e, appunto, della religione. Monsignor John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (Nigeria), subito dopo la strage di cristiani nella zona di Jos ha detto: “Non si uccide a causa della religione ma per rivendicazioni sociali, economiche, tribali”. Le modalità dell’attacco, inoltre, di precisione quasi militare, a tutto fanno pensare tranne che a un pogrom di fanatici religiosi. Al contrario, la Nigeria vive una forte crisi del potere centrale e rivalità regionali che la scuotono da Nord a Sud. Nello Stato del Plateau, quello dell’ultima strage, tutto si gioca sulla certificazione di “popolazione autoctona”: da essa dipendono i diritti di residenza, lavoro e proprietà, cioè la possibilità di campare. E stiamo parlando di un Paese dove i cristiani sono il 35% della popolazione.
Se facciamo lo spoglio delle crisi, troviamo situazioni simili. In Iraq, dopo il 2003 e la fine del regime crudele di Saddam Hussein, i cristiani iracheni fuggirono da Baghdad perché schiacciati nello scontro tra i sunniti che perdevano il potere e gli sciiti che lo riconquistavano. Ora succede la stessa cosa al Nord, nella regione di Mosul che, insieme con Kirkuk, è oggetto di contesa tra curdi autonomisti e arabi fedeli al Governo centrale. In Sudan c’è la ribellione del Sud cristiano alla shari’a imposta dal Nord islamico ma anche la lotta per risorse decisive come terra, acqua e petrolio. Nello Stato indiano dell’Orissa colpisce il fondamentalismo indù, spinto però anche dal timore che l’egualitarismo cristiano scardini il sistema delle caste e modifichi un preciso e perverso assetto economico.
Tutto questo non vuol dire che non vi sono ferite inferte dalla pura intolleranza, in primo luogo in Asia. Vuol però dire che, comprendendo la natura sociale e politica di certi fenomeni, si può anche agire socialmente e politicamente per contenerli e forse eliminarli. E’ difficile cambiare l’islam. Un po’ meno difficile far ragionare i curdi dell’Iraq, che con gli Usa e l’Occidente in genere hanno da tempo un’ottima intesa. Idem per l’Arabia Saudita (i cristiani sono il 2,9%, l’islam è l’unico culto ammesso), che incassa i nostri euro per il suo petrolio, o per il Pakistan (cristiani al 2%) che l’America addirittura protegge con forze armate. Una cosa è certa. I cristiani, che nel complesso raggiungono i 2 miliardi, sono oggi il culto più perseguitato al mondo. Non è più tollerabile. E se al posto di continuare a strillare cominciassimo a fare qualcosa?
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 10 marzo 2010