Avete seguito la polemica scoppiata intorno a Ethan Bronner, capo dell’ufficio di corrispondenza del New York Times a Gerusalemme? La questione sta in questi termini: Bronner, al giornale newyorchese dal 1997 dopo molti anni passati al Boston Globe, vincitore di un premio Pulitzer per la divulgazione nel1989, è ebreo, ha sposato un’israeliana (Nehomi Kenati) e ha un figlio, che si è arruolato volontario nell’esercito d’Israele. Da qui le proteste di molti gruppi (dai palestinesi ai critici di Israele più arrabbiati ai sostenitori della libertà di stampa) che vedono in quella situazione familiare un “conflitto d’interessi”.
La polemica, almeno negli Usa e in Israele, è cresciuta al punto che Bill Keller, direttore del NYT, è dovuto intervenire con un lungo comunicato in cui, respingendo tutte le proteste e difendendo il lavoro di Bronner, scriveva tra l’altro: “Se accettassi di rinunciare a Ethan Bronner per il figlio, poi ci chiederebbero di non mandare più reporter ebrei in Israele, di non mandare più reporter sposati con ebrei, sposati con israeliani, sposati con arabi… e così via, senza più fine”. Un ottimo argomento. In apparenza.
Chi vuole dare un’occhiata al lavoro di Bronner, e magari giudicarne qualità e obiettività, può cliccare sulla sezione del NYT che raccoglie le sue corrispondenze da Gerusalemme. Io l’ho fatto e ci ho trovato quelli che mi paiono gli articoli di uno stimabile collega, non troppo affezionato alla causa
palestinese ma nemmeno troppo sbilanciato a favore di Israele. Ma il problema non sta in ciò che Bronner scrive (che, proprio perché scritto, è anche pubblico e giudicabile), semmai in ciò che potrebbe non scrivere. Per dire: se il figlio soldato fosse tornato da Gaza dicendo che l’esercito d’Israele aveva sparato su civili inermi e buttato le bombe al fosforo su scuole e palazzi d’abitazione, il padre giornalista lo avrebbe scritto? Avrebbe indagato per saperne di più?
Su una questione come questa non si possono esercitare pre-giudizi. In altre parole, non si può chiedere la “testa” di un giornalista (come di chiunque) perché un giorno, chissà, forse, potrebbe comportarsi male. Se si comporterà male, se scriverà il falso, se ometterà notizie importanti, sarà il suo giornale a giudicarlo. Infatti, a me interessa di più un’altra questione, questa. Se Bronner non fosse un Bronner ma un Khaled, se non fosse ebreo ma musulmano, se suo figlio lavorasse per le forze di sicurezza palestinesi e non per quelle d’Israele, faremmo gli stessi ragionamenti? Saremmo così garantisti e comprensivi? Ci fideremmo? Saremmo altrettato nobili nel respingere qualunque preventivo sospetto?
Francamente non lo credo. Credo, al contrario, che il nostro ipotetico Khaled non sarebbe nemmeno stato mandato a Gerusalemme. Il NYT si vanta molto di Nazila Fathi, la giornalista iraniana che si occupa di Iran. Ma la Fathi è stata a suo tempo esiliata dall’attuale regime di Teheran, e questo non è considerato un conflitto d’interessi. Mi domando che cosa succederebbe se la Fathi, al contrario, avesse un figlio che milita nei Guardiani della Rivoluzione o nei pasdaran. E’ un esempio estremo, ma per colpa del fanatismo del figlio anche la madre dovrebbe portare le stimmate della fanatica? E in Italia, per dire, quanti giornalisti di origine araba e musulmani scrivono di Medio Oriente? C’era Magdi Allam, egiziano, ex allievo dei salesiani, poi convertitosi al cristianesino. C’è Camille Eid, libanese, cristiano. Altri ne conoscete?