TURCHIA: IL GENERALE NON ABITA PIU’ QUI

Turchia: a due anni dai primi arresti (fine gennaio 2008), il “caso Ergenekon” tocca l’apice con questa specie di retata che ha portato agli arresti di 40 persone, tra cui figure non più centrale ma simboliche dell’establishment militare del Paese come il generale Ibrahim Firtina, ex capo dell’Aeronautica, e l’ammiraglio Ozden Ornek, ex capo della Marina.

Una parata dell'esercito turco. Sullo sfondo, un grande ritratto di Kemal Ataturk, il "padre della patria".

Una parata dell'esercito turco. Sullo sfondo, un grande ritratto di Kemal Ataturk, il "padre della patria" che modernizzò il Paese.

Non è il numero degli arresti a colpire: dopo tutto, per il golpe vero o presunto tramato da una vera o presunta organizzazione nazionalista (Ergenekon, appunto) sono finiti in carcere ormai più di 200 tra militari, intellettuali, simpatizzanti della destra e persino mafiosi. E’ il modo a fare impressione: il premier Recep Tayyip Erdogan li ha annunciati come per caso durante una visita di Stato in Spagna, che non si è sognato di interrompere. In tanto il generale Ilker Basburg, capo di Stato maggiore delle forze armate, rientrava di corsa da una missione di tre giorni in Egitto.

Una prova di forza, dunque. Non la prima e nemmeno l’ultima tra l’Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) filoislamico di Erdogan e i militari KemalAtaturkautonominatisi custodi dell’eredità laica e occidentalista di Kemal Ataturk (nella foto), il padre della moderna Turchia. Raccontata così, la storia di questa ferocissima battaglia politica pare solo l’ennesimo capitolo della stucchevole fiction intitolata “Lo scontro di civiltà”. Ma in essa c’è molto più di questo. Qualcuno può credere che, a causa di Erdogan, la Turchia stia avviandosi sulle orme dell’Iran o, per dire di un Paese islamista che però nessuno critica, dell’Arabia Saudita? Qualcuno riesce a pensare che i militari turchi, che di golpe veri ne hanno fatti almeno tre (1960, 1971, 1980) dando poi sempre povere prove di Governo, siano la classe dirigente più adatta per un Paese che aspira a entra nella Ue e che intanto è diventato uno snodo fondamentale per le forniture energetiche di tutto l’Occidente?

Erdogan, nel 1998 processato e condannato al carcere per “incitamento all’odio religioso”, è al potere dal 2002 e finora ha governato assai bene. L’inflazione è stata riportata sotto controllo, l’economia è cresciuta in media del 7% l’anno, vasti progetti sono stati avviati nel settore delle infrastrutture (come le 22 dighe nel Sud-Est del Paese, per irrigare e produrre energia) ed è stato leggermente ridotto lo storico divario nel tenore di vita tra l’Est, più povero, e l’Ovest del Paese. Le pulsioni islamiche, e persino gli ammiccamenti all’islamismo, non mancano nella compagine di Governo, ma Erdogan li ha tenuti sotto controllo e nei momenti decisivi (per esempio nel 2003, con l’attacco anglo-americano contro l’Iraq di Saddam Hussein) si è sempre schierato con l’Occidente.

Per questo i turchi gli hanno sempre dato fiducia, soprattutto nei momenti in cui il confronto con i vertici dell’esercito e della magistratura si è fatto più aspro. Come nel 2007, quando Erdogan e l’Akp candidarono Abdullah Gul alla presidenza della Repubblica, si scontrarono con l’opposizione dell’esercito e l’ostruzionismo parlamentare dell’opposizione, andarono alle elezioni anticipate e ottennero il 46,6% dei consensi.

I militari turchi, oggi, assai più che l’islamismo di Erdogan soffrono la perdita di status e di ruolo. Nei decenni in cui la Turchia era il bastione Est della Nato, il confine con l’impero sovietico e la muraglia verso la terra incognita dell’islam, il loro ruolo era decisivo anche in ambito internazionale. I Governi Usa li blandivano e li proteggevano, all’Europa quanto meno non interessavano. E questa condizione gli permetteva di esercitare un enorme potere anche in patria.  Il Muro di Berlino è caduto addosso anche a loro: l’Urss non c’è più e la Russia di Putin è un socio in affari; gli americani hanno altro a cui pensare e comunque hanno portato la guerra in Iraq, fin nel cuore dell’islam, senza bisogno di intermediari. Nell’arresto dei generali in pensione c’è, per questi soldati un po’ arrugginiti, la certificazione di un declino drammatico e persino crudele.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 23 febbraio 2010

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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