STRANA GUERRA IN IRAQ, SEMBRA PACE

E viceversa: perché in Iraq c’è anche una pace che sembra guerra.Nel discorso di accettazione del Nobel per la Pace, Barack Obama parla della situazione in Iraq come di “una guerra che sta finendo”. Negli stessi giorni, proprio laggiù, succede quanto segue: una serie di bombe (almeno cinque) esplode in diversi quartieri della capitale Baghdad, uccidendo almeno 130 persone; il Governo emette bollettini di soddisfazione perché novembre 2009 è stato il mese con meno civili morti dal giorno dell’invasione anglo-americana (solo 88; un macello per noi, una buona notizia per un Paese dove tre anni fa si marciava al ritmo di 3 mila morti al mese); il ministero del Petrolio iracheno assegna alla danese Shell e alla malese Petronas la concessione per lo sfruttamento di due importanti campi petroliferi.

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      Sempre per restare al petrolio: l’asta organizzata dal Ministero diretto Hussain al Sharistani è andata buca per quanto riguarda i campi petroliferi del Nord, dove arabi e curdi si combattono per il predominio, o per quello di Baghdad Est, troppo vicino alla cittadella sciita di Sadr City per non essere pericoloso. Mentre le più grandi tra le grandi compagnie petrolifere girano ancora alla larga, la nostra Eni aumenta gli obiettivi di produzione del giacimento di cui è concessionaria (Al Zubair, con riserve accertate per 4 miliardi di barili) e li porta da 1,125 milioni a 1,2 milioni di barili al giorno. E Al Sharistani dichiara sicuro che l’Iraq arriverà a superare i 10 milioni di barili di petrolio al giorno (adesso siamo a 2,5-3) entro cinque-sei anni, quota che farebbe dell’Iraq il secondo produttore al mondo dopo l’Arabia Saudita e prima della Russia.

      Segnali contrastanti, quindi resta in piedi la domanda: la guerra in Iraq è finita o no? Credo che dovremo abituarci a questa situazione di guerra-non guerra, situazione cui finiremo per arrivare anche in Afghanistan. Esattamente come faremo l’abitudine a ripetute dichiarazioni di disimpegno (ritireremo i soldati entro il, non resteremo oltre il) che finiranno regolarmente disattese. Se rivolgiamo all’Iraq un’analisi non partigiana e, anzi, persino un po’ cinica, dobbiamo ammettere che in realtà è successo questo: a un regime autocratico sanguinario, quello di Saddam Hussein, basato sul predominio armato della minoranza sunnita (30-35% della popolazione), abbiamo sostituito attraverso una guerra (e almeno 1 milione di civili morti) il predominio della maggioranza sciita (60-65%). Certo, ora si vota. Ma chiamare “democratiche” elezioni in cui uno dei contendenti ha in ogni caso la maggioranza ed è per giunta appoggiato da un esercito straniero, mi pare un po’ troppo di bocca buona.

      La situazione sembra all’esterno relativamente calma perché la combinazione maggioranza sciita + esercito e aiuti Usa ha una forza schiacciante. Tutto cambia, e molto, dove ci sono ancora faglie in movimento. A Nord, per esempio, nella regione petrolifera di Kirkuk, contesa tra i curdi e gli arabi. Lì la tensione resta altissima e a farne le spese è la minoranza cristiana, aggredita dagli uni e dagli altri che vogliono obbligarla a schierarsi. Più in generale, una spartizione come quella che regge il Paese lascerà sempre degli insoddisfatti pronti ad agitarsi e magari a sparare. E finché le truppe americane resteranno sul terreno, non più come potenziale bersaglio ma comunque come bastione di uno specifico Governo e addirittura di una specifica etnia, ci saranno sempre Paesi stranieri pronti a soffiare sul fuoco. La cosa, tra l’altro, riesce particolarmente facile in Iraq, dove i confini sono linee del tutto arbitrarie tracciate sulla sabbia.

      Il Parlamento, intanto, ha approvato la legge elettorale e l’Iraq terrà il suo voto il 7 marzo. Se si è arrivati alla legge, dopo contrasti aspri e lunghissimi, vuol dire che un’intesa spartitoria tra le diverse fazioni è stata trovata. Il voto è ormai una formalità: servirà soprattutto a capire a chi è andato che cosa.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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