KARZAJ L’AFGHANO, IL MITO FASULLO CHE HA DELUSO TUTTI

Tra pochi giorni in Afghanistan si vota per le presidenziali. In buona sostanza si sfidano il presidente in carica 2004, Ahmid Karzaj, 51 anni, e il suo ex ministro degli Esteri, Abdullah Abdullah, 49. Sono entrambi di etnia pashtun, hanno quindi la principale caratteristica richiesta a chi voglia concorrere alla presidenza: i pashtun, infatti, sono l’etnia maggioritaria in Afghanistan (42-43% della popolazione) e il più potente tra i diversi gruppi di pressione. Tra il 2004 e il 2005 i loro rappresentanti hanno ottenuto la presidenza con Karzaj e 113 seggi sui 249 dell’Assemblea Nazionale. Poiché non c’è duello senza pronostico, mi sbilancio a favore di Karzaj. La situazione afghana è drammatica (100 soldati stranieri morti negli ultimi 45 giorni) e Abdullah è dato in forte crescita ma non credo che riuscirà a rovesciare i pronostici che danno a Karzaj il 44% dei favori e a lui solo il 26%. Si andrà al ballottaggio, credo, e questo sarà già un indice del calo di popolarità del Presidente.

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      I due candidati alla presidenza dell’Afghanistan: Ahmid Karzaj, presidente in carica (a sinistra) e Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri.
      Quello che m’incuriosisce, tra l’altro, è proprio questo: di colpo, giornalisti, osservatori e pseudo-esperti hanno cominciato, da noi, a criticare Karzaj, l’uomo che in piena sintonia coi vezzi occidentali era stato persino nominato “uomo più elegante del mondo”. Di colpo si è scoperto che la sua amministrazione è inefficiente e corrotta, che i suoi parenti sono implicati nel traffico di droga, che il suo cinismo politico ha confini piuttosto vasti e malleabili: per conquistare i voti della comunità sciita (che in Afghanistan forma circa il 15% della popolazione), Karzaj si è precipitato a fare le congratulazioni al collega Ahmadinejad di Teheran, poi ha fatto approvare una legge che permette ai mariti sciiti di punire le mogli (negando loro cibo e sostentamento) che non accolgono le loro richieste sessuali; per compensare l’evidente freddezza della nuova amministrazione Usa ha stretto rapporti con Cina e Russia; per avere elezioni tranquille (e una maggiore partecipazione al voto, che lo favorirebbe) ha offerto una trattativa ai talebani, proprio mentre i soldati del suo Paese e di altri 36 Paesi muoiono al fronte.
      Un bel tipo, insomma. Ma perché scoprirlo adesso? Molto pesa l’esempio americano: a Obama, che in Afghanistan sacrifica vite e soldi americani, non piace troppo Karzaj. Lo si percepisce a tutti corrono ad adeguarsi. Moltissimo, secondo me, conta però l’ipocrisia che dal 2001 accompagna l’intervento in Afghanistan. Io c’ero, allora. Entrato in Afghanistan dal Tagikistan, mi trovai dopo qualche giorno immerso in una situazione paradossale: l’avanzata delle truppe occidentali verso Kabul procedeva a ritmo da rally, e noi giornalisti quasi non si faceva altro che rincorrere. Nello stesso tempo, i miliziani anti-talebani sfoggiavano attrezzature nuove di pacca, uniformi senza una macchia, jeep senza un graffio, fucili che ancora odoravano di grasso. Ricordo a Taloqan, una città del Nord dove si svolse una breve ma intensa battaglia, le loro radio Motorola ancora avvolte nella plastica a pallini dell’imbottitura.

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      Una pattuglia afghana nella regione dell’Helmand.
      Per farla breve: era chiaro che i “signori della guerra” erano stati convinti per tempo a mollare i talebani. Con rifornimenti, regali e anche promesse. Una di queste fu la licenza di coltivare papavero da oppio: non può essere stato altrimenti, visto che dal livello quasi zero raggiunto con i talebani si è passati a una sequenza di record storici nella produzione di oppio. Le conseguenze sono note: capi clan, capi tribù e signori della guerra si sono ritagliati guadagni sempre maggiori e spazi sempre maggiori, fino a mettere in pericolo non solo la già ridotta stabilità dell’Afghanistan ma anche la capacità della coalizione occidentale di tenerlo sotto relativo controllo. Ahmid Karzaj non è un alieno ma parte integrante di questo quadro. E nemmeno è un missionario della politica ma un leader tribale come tanti altri, spietato nel gestire gli interessi del proprio clan, indifferente alla sorte degli altri, furbo e incline al compromesso. Fu scelto dagli americani, a suo tempo, perché un po’ meno peggio di altri e, soprattutto, perché forte e autorevole all’interno dell’etnia maggioritaria nel Paese.
      Siamo noi ad avergli costruito intorno uno status e un mito che non merita. Esattamente com’era successo, prima, con Ahmad Shah Massoud, leader dell’Alleanza del Nord, ucciso in un attentato proprio alla vigilia dell’attacco occidentale, nel 2001. Combatteva i talebani, d’accordo, ma prima, negli anni delle guerre civili afghane scoppiate dopo la caduta dei russi e prima dell’avvento degli estremisti islamici, non si era fatto pregare quando si era trattato di bombardare con i razzi i civili di Kabul. L’unica soluzione per uscire dall’emergenza perenne (quella militare, ma anche quella sociale: l’età media è inferiore ai 18 anni, ci sono 152 bambini morti alla nascita ogni mille nati vivi, la speranza di vita è ferma a 44 anni e solo il 28,1% della popolazione sa leggere e scrivere) mi pare, al momento, quella a cui si è accennato di recente in ambienti Usa: affiancare al Presidente eletto un plenipotenziario americano, una sorta di super ministro incaricato di verificare come e con quali risultati sono spesi i quattrini che 60 Paesi versano ogni giorno per tenere in vita l’Afghanistan. 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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