MEDIO ORIENTE, EPPUR SI MUOVE: GLI INSEDIAMENTI DI ISRAELE (prima parte)

Nel Medio Oriente che cambia c’è anche Israele. Ad alcuni potrà sembrare strano. Qualcuno dirà: come cambia, se si è data un Governo la cui parola d’ordine, almeno in tempo di elezioni, è stata: nessun passo indietro, nessuna concessione, nessun cedimento. Ma il cambiamento di cui ci pare di scorgere i segni dipende solo in parte dalla volontà dei Governi, belli o brutti, buoni o cattivi che siano. Ci sono questioni che precipitano per conto proprio: i politici possono frenare o accelerare, forse guidare, ma certo non possono impedire.


      Quello che il Governo guidato da Bibi Netanyahu insieme con Avigdor Lieberman (agli Esteri) e Ehud Barak (Difesa) non ha potuto impedire (e che nessun Governo avrebbe potuto impedire) è che l’attenzione della diplomazia si spostasse dal tema della sicurezza di Israele a quello degli insediamenti di Israele. Com’è ovvio, la questione è complessa e i due punti di vista, checché se ne dica, non possono essere totalmente scissi. La Guerra dei Sei Giorni (1967), scoppiata dopo una lunga serie di provocazioni reciproche tra Israele e l’Egitto, lasciò lo Stato ebraico padrone della Cisgiordania (chiamata, nei documenti ufficiali israeliani, “Giudea e Samaria”) e di Gaza. Subito dopo cominciò la politica degli insediamenti, che rispondeva a tre esigenze: una, ideologica e religiosa insieme, era la costruzione del “grande Israele” dal Mediterraneo al Giordano, se non dal Mediterraneo all’Eufrate; l’altra, di carattere militare, era la maggiore protezione della popolazione ebrea; la terza, era l’idea di impadronirsi della maggiore quantità possibile di terra per poi usarla come “arma” in eventuali trattative di pace.

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      Una mappa degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
      I tre scopi sono tuttora presenti nella politica degli insediamenti, che Israele ha perseguito con pochissimi interruzioni in questi quattro decenni. Oggi in Cisgiordania (cioè nei territori palestinesi) vivono quasi 300 mila israeliani (la popolazione totale di Israele è di 7 milioni e 300 mila persone) sparsi in 121 insediamenti. Il più grande è Maale Adumin, una città di 30 mila abitanti. Il più piccolo è forse quello di Hebron, città palestinese in cui 800 coloni vivono protetti da un imponente servizio di sicurezza. In tutto, occupano circa il 40% della terra che prima del 1967 era considerata “palestinese”. A essi, almeno secondo il punto di vista palestinese e di gran parte della comunità internazionale, andrebbero aggiunti i 190 mila israeliani che vivono a Gerusalemme Est, prima della guerra dei Sei Giorni la “Gerusalemme araba” (ma era sotto il controllo della Giordania), che Israele ha però dichiarato parte della “capitale indivisibile” del proprio Stato. Un altro corposo insediamento era considerato quello di Gaza, dove fino al 2005 vivevano 8 mila israeliani. In quell’anno, però, il premier Ariel Sharon decise di ritirarli. Gaza finì nelle mani di Hamas, con le conseguenze che sappiamo.

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      Gaza, estate 2005: i coloni israeliani in lacrime lasciano l’insediamento di Gush Katif dopo la decisione del Governo guidato  da Ariel Sharon.
      Prima ho parlato di “politica degli insediamenti”. Israele, infatti, ha sempre proseguito l’espansione dei centri abitati in Cisgiordania. La cosiddetta Road Map, concordata da Usa, Ue, Russia e Onu e annunciata da George Bush il 24 giugno 2002, prevedeva la sicurezza per Israele e il blocco totale degli insediamenti. Ma nel 2005 Talia Sasson, una ex magistrato, fu incaricata da Ariel Sharon di compilare un rapporto sugli insediamenti. Risultato: almeno 150 centri abitati erano stati avviati o costruiti in Cisgiordania violando la legge, persino quella israeliana, con l’aiuto di diversi ministeri che avevano poi fatto ostruzione alla compilazione del rapporto. E nel 2006, quando il mondo era concentrato sulla guerra tra Israele e gli Hezbollah del Libano, e dopo che il premier Ehud Olmert si era impegnato a bloccare ogni nuovo insediamento, altri 31 centri abitati illegali furono costruiti in Cisgiordania. Secondo un’inchiesta del quotidiano Haaretz, inoltre, tra il giugno 2005 e il giugno 2006 la popolazione ebraica della Cisgiordania (cioè, i coloni) crebbe del 5,3%.
      Occorre ribadire, affrontando questo tema difficile, che a Israele non mancano i buoni argomenti. Può per esempio ribattere (e infatti lo fa) che in tutti questi anni, tra guerre, attentati e intifade, è mancato l’altro corno decisivo della Road Map, cioè la disponibilità dei palestinesi a vivere in pace e a garantire la sicurezza del popolo israeliano, che ha dunque bisogno di difendersi anche con gli insediamenti. L’ultima volta che sono stato a Gerusalemme, un noto intellettuale di origine italiana mi ha detto: “Lo Stato palestinese? Va bene. Ma chi mi garantisce che poi non arriverà sulla mia casa un missile come quelli che sono arrivati da Gaza sulle case di Ashqelon e di Sderot?”. E’ quanto dice, con parole poco diverse, anche il premier Netanyahu, che infatti ha chiesto uno Stato palestinese smilitarizzato e sotto il controllo degli Usa. E’ un rimpallo di responsabilità che va avanti da quarant’anni ma che adesso potrebbe avere i giorni contati. Nel prossimo post vedremo perché e come.

(Israele 1. continua)
    

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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