Ventitrè anni e un giorno fa (scusate, ho ciccato il 26 aprile a causa dell’influenza) il mondo scopriva l’esistenza di Cernobyl. Ad avvistare la nube radioattiva furono le stazioni Nato in Norvegia. Michail Gorbaciov ci avrebbe messo quindici giorni ad ammettere che laggiù, in quell’angolo di Ucraina, era in effetti successo qualcosa. Solo molto tempo dopo l’Occidente avrebbe scoperto certi particolari: per esempio, che l’esplosione del reattore numero 4 della centrale aveva investito in pieno l’abitato di Pripjat’, la piccola città che in perfetto stile sovietico era stato costruita accanto all’impianto per ospitare tecnici e operai, mentre Cernobyl, distante 20 chilometri, era stata evacuata prima che il danno fosse mortale. O che le trenta persone morte nelle settimane immediatamente successive erano in gran parte dei veri eroi, pompieri o tecnici accorsi a gettare sabbia sul reattore esploso a mani nude o quasi.
Nella foto sopra: il centro di Pripjat’. Sotto: sullo sfondo, la sagoma della centrale di Cernobyl.
Non mi attardo sul bilancio totale delle vittime, che è in realtà sconosciuto, visto che si va da poche decine a 6 milioni di morti secondo le diverse valutazioni. E sono pure poco interessato alle polemiche su “nucleare sì nucleare no”: credo che il nucleare possa funzionare (se funziona ovunque in Europa, perché da noi no?) ma credo anche che il ritorno al nucleare non abbia senso se deve servire solo a mantenere una pseudo-crescita basata sullo spreco e non sullo sviluppo, a garantire la prosecuzione delle cattive ebitudini energetiche e non, anche, una più intelligente (e proprio grazie al nucleare, meno faticosa e sgradevole) politica di conservazione dell’ambiente.
Nelle foto sopra e sotto: disegni sui palazzi di Pripjat’ per ricordare i bambini evacuati.
Avevo però in mente da tempo questa fotostoria. Un po’ perché sono affezionato alle foto che ho scattato a Cernobyl in diverse occasioni, e un po’ perché vedo che i comuni italiani, appena si è sparsa la voce dell’intensione del Governo di costruire 4 nuovi reattori entro il 2020, sono scesi sul piede di guerra. La centrale va bene ma solo se in casa d’altri, e questo è un fatto. Ma poi c’è anche il problema, serio e concreto, di raccogliere da qualche parte le 235 tonnellate di conbustibile esaurito e i 30 mila metri cubi di rifiuti radioattivi generati dagli impianti dismessi. Procedimento lento (per Caorso siamo oggi al 20%) e da affrontare con cautela.
Nella foto sopra: una donna tornata a vivere nella sua casa di Cernobyl. Gli anziani sono stati i primio a tornare, anche quand’era assolutamente vietato e pericoloso farlo. Pochi di loro (gli evacuati, nella sola Ucraina, furono 350 mila) riuscirono ad adattarsi alla vita in città e preferirono rioccupare le vecchie case dove avevano vissuto fino al disastro.
Credo che quanto avvenne a Cernobyl nel 1986 sia da inserire nel quadro di un sistema, quello del socialismo reale sovietico, agonizzante e non più capace di garantire un minimo di efficienza. In quegli anni ormai dimenticati nell’Urss successe di tutto, non solo Cernobyl. Chi ricorda il disastro di Ufa, in siberia, dove l’esplosione di un gasdotto investì due treni, uccidendo in un attimo 650 persone? O della collisione tra due navi sovietiche nel Mar Nero, con 450 morti? Questa fotostoria, dunque, vuol essere un omaggio alle vittime del 1986. E un monito a noi presenti: la Storia è fatta per essere superata.
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