BASTA FROTTOLE: IL PRECARIATO DEI GIOVANI NON SALVA L’ECONOMIA

      Qualche giorno fa ho sentito il ministro Brunetta, mai abbastanza lodato per la campagna anti-fannulloni (nella speranza che si tramuti anche in campagna pro-efficienza dei servizi pubblici), dire con grande noncuranza sui precari quanto segue: “Se perdono il posto faranno altro, magari all’estero”. Con questa frase anche Brunetta entra, accanto all’ex ministro Padoa Schioppa con la sua frase sui “bamboccioni”, nel mio pantheon personale dei ministri che meriterebbero di provare ciò che augurano agli altri.
Un politico che parla con tanta indifferenza dei problemi cruciali dei cittadini, delle questioni che decidono la qualità della vita delle persone, ha probabilmente sbagliato mestiere. Soprattutto mi piacerebbe sapere quanti dei parenti di Brunetta (e/o Padoa Schioppa) hanno mai fatto, o fanno attualmente, un lavoro precario. Ma precario vero, che alla fine del contratto non sai se ti confermano, e se non ti confermano hai dei problemi a sbarcare il lunario. Perché la straordinaria caratteristica di questi fautori del libero mercato (delle merci e delle persone che lavorano) è proprio questa: di non aver mai provato sulla propria pelle quanto ritengono tranquillamente applicabile alla pelle altrui.
Mi rendo conto che questo è un tema su cui mi scaldo facilmente. Credo dipenda anche dal fatto che ho due figlie che lavorano, appunto, con contratti a termine e che già più di una volta ho sperimentato la loro angoscia allo scadere di un contratto, con le aspettative che si bloccano, i progetti rimandati, le decisioni sospese per mancanza di un salario certo. E con, diciamolo francamente, il peso delle aspettative dei genitori sul collo, perché noi padri e madri siamo in ansia per loro e quest’ansia si tramuta con facilità in pressione.
Ma non sono l’unico, anzi. Tutte le stime più attendibili dicono che i lavoratori precari in Italia sono circa 4 milioni, mica uno scherzo se la popolazione tra i 15 e i 64 anni d’età è di circa 19,5 milioni di persone. Aggiungiamo un fatto: dal 1995 a oggi, come spiegano le migliori ricerche (per esempio, Un nuovo contratto per tutti, ottimo libro di Tito Boeri e Pietro Garibaldi per l’editore Chiarelettere) l’occupazione è sempre cresciuta e la disoccupazione è addirittura scesa dall’11 al 6%. Se il precariato fosse un fattore decisivo (fermo restando che una certa elasticità il mercato del lavoro deve pure averla), dovremmo essere un Paese ricco e soddisfatto.
A voi gli italiani sembrano sereni e felici? E l’Italia vi pare un Paese ricco? E’ successo esattamente il contrario: siamo sempre più incazzati e poveri. Non sono io a dirlo ma le statistiche. La nostra quota pro-capite del Pil (Prodotto interno lordo) è inesorabilmente calata: la media europea è di 27 mila euro, noi siamo a 25.500 e dietro di noi ci sono ormai solo la Grecia e il Portogallo. Non solo: la crescita complessiva dell’Italia è da almeno dieci anni inferiore a quella degli altri Paesi europei. Alla faccia del precariato di massa, che di fatto è diventato un gigantesco regalo alle aziende a spese delle famiglie. Perché la realtà inconfutabile, dicano quel che vogliono i Brunetta e i Padoa Schioppa di ogni forma e colore, è questa: una volta, se entravi in un’azienda non ne uscivi più, proprio grazie al posto fisso; adesso, se entri nel precariato non ne esci più. Fai il precario a vita o quasi, dato che solo 1 su 20 dei lavoratori con contratti atipici riescono poi a ottenerne uno a tempo pieno.
L’enorme disparità salariale che, tramite la precarietà, ormai affligge i giovani (rispetto ai meno giovani) e le donne (rispetto agli uomini) ha poi effetti sociali di cui la politica non si occupa adesso ma di cui dovrà drammaticamente occuparsi in futuro: per esempio, la scarsa o quasi nulla natalità, visto che la crescita demografica del Paese è un regalo che ci fanno i tanto deprecati immigrati. I giovani e le giovani che non si sposano perché non hanno un reddito certo sono anche coppie che non mettono su casa, che non spendono, che non consumano. Per chi producono, dunque, le aziende di beni spiccioli e dei servizi che sono l’orgoglio della nostra economia? Chi comprerà i mobili della Brianza, le auto della Fiat, i jeans di Armani, i pacchetti-vacanze degli alberghi di Rimini o della Sicilia?
Non sono un giuslavorista e quindi non saprei esprimere una ricetta efficace per coniugare flessibilità del mercato del lavoro e tutela dei lavoratori. Certo il giusto mezzo non è la situazione attuale, che si scarica sempre e soltanto sulla già fragile situazione dei giovani. Credo che lo Stato dovrebbe investire molto di più nella ricerca, e in essa impiegare la freschezza, l’inventiva e la “voglia” delle migliaia di giovani che appassiscono in lavori precari e inferiori alle loro qualifiche oppure prendono, quando possono, la strada dell’estero. Ricerca che andrebbe a beneficio di tutti, anche di quelle aziende che del precariato diffuso approfittano per ridurre le spese senza fare investimenti. Nessuno è obbligato a fare il mestiere durissimo dell’imprenditore. Ma un’impresa senza spirito d’impresa che impresa è?

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

2 Commenti

  1. Annalisa said:

    Caro Fulvio,

    anch’io ho un figlio precario e anch’io mi preoccupo per il suo futuro. Però penso anche che un lavoro precario è meglio di nessun lavoro, soprattutto di questi tempi, e che un posto fisso per tutti è solo un’utopia impraticabile.

    Ciao

    Annalisa

  2. Fulvio Scaglione said:

    Cara Annalisa,

    è tutto vero. Ma è vero anche il contrario e cioè: l’economia non decolla grazie al precariato di massa, come invece cercano di dirci molti politici e molti esponenti dell’industria. E con una quota così ampia di precari (4 milioni in Italia) diventa precario il Paese stesso, perché stiamo parlando di gente che fatalmente, dal punto di vista economico, vive a scartamento ridotto.
    Soprattutto a me pare che la grande agevolazione che è stata data alle aziende (che usano i precari per lavori che una volta sarebbero stati affidati a lavoratori a tempo pieno) non sia stata compensata da adeguati investimenti nella ricerca, dai quali sarebbero potute scaturire opportunità di crescita economica solida, quindi di occupazione più regolare.

    Ciao, a presto

    Fulvio

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