VIVERE PER CONSUMARE NON E’ OBBLIGATORIO, NEMMENO SE C’E’ LA CRISI

      Su “Affari e Finanza”, il supplemento economico di “la Repubblica”, ho trovato un articolo del sociologo Giampaolo Fabris che, molto modestamente, mi permetto di segnalare a chi per caso non l’avesse visto. Già il titolo è chiarissimo: “Il consumatore non è al servizio di chi produce”. La tesi di Fabris non lo è meno: sono i consumatori “in questa fase storica e di raggiunto tenore di vita, a dover soddisfare bisogni altrui, espressi da chi produce beni o servizi”. E aggiunge: “Vi è il fondato sospetto che, nei Paesi industriali avanzati, una stasi nei consumi non significhi affatto un peggioramento della qualità della vita”, anche perché “ormai in gran parte dei comparti merceologici gli acquisti sono di sostituzione. Il più delle volte i beni sostituiti non generano, al di là dell’immediato, maggiore soddisfazione”.
      Sono assolutamente grato a Fabris per aver espresso in termini così chiari e sintetici una sensazione sulla quale mi interrogo da tempo. A modo mio, credo di essere un consumatore piuttosto in linea con il mio tempo. Non ho grande passione per orologi, automobili, apparecchi hi-fi, macchine fotografiche, I-Pod e così via, cioè per beni e gadget che comportano una certa spesa, e che peraltro potrei permettermi solo in ridottissima parte. Riesco però a essere un consumatore quasi compulsivo di prodotti minimi o piccoli. Per dire: berretti (ne avrò venti…), penne e biro, libri, taccuini di ogni forma e colore, maglioni. Adoro mercati e mercatini, da cui ovviamente non esco mai indenne.
      Mi succede sempre più spesso, però, di fermarmi sulla soglia dell’ennesimo acquisto futile ma piacevole. Non perché sia diventato saggio ma perché il discorso continuo sulla crisi economica, e la crescita di dazi e tariffe che riduce il mio margine di benessere, mi portano a considerare che, appunto, si tratterebbe dell’ennesimo acquisto nello stesso genere. L’ennesimo berretto, l’ennesima penna, l’ennesimo taccuino. Una considerazione che ammazza il piacere dell’acquisto e lo riduce a mero e arido meccanismo. Proprio quello che identifica Fabris quando parla di “sostituzione”.
      Dal discorso del sociologo resta fuori, ovviamente, quella fascia di persone (lui la valuta, in Italia, in circa il 15% della popolazione) che vive alle soglie della povertà e per la quale un maggiore accesso ai consumi significa una vita migliore. Ma è del restante 85% che stiamo parlando, la vasta maggioranza a cui anche io appartengo: consumiamo per esistere o esistiamo per consumare?
      Non voglio fare, qui, una tirata vecchio stile contro il consumismo. Se le aziende che producono beni di consumo dovessero chiudere, appunto per mancanza di consumi, scaricherebbero sulla società una disoccupazione di massa, un dramma cui nessuno vuole assistere. Adesso, però, sentiamo ogni giorno intorno a noi la pressione a consumare (“incentivare i consumi”, è la formula economica di rito) anche se magari consumiamo già abbastanza. Insomma: non sarò mica l’unico che ha già più o meno tutto ciò che gli serve, un tot di superfluo e che quindi può dire “sono a posto così, grazie, non mi serve niente”?
      Dev’essere possibile una via di mezzo. Fabris considera la scarsa quota di  innovazione offerta dai prodotti destinati al consumo di massa. Vero, però non si può pretendere che ogni anno qualcuno inventi il computer portatile o il telefono cellulare, strumenti che ci hanno cambiato la vita, o almeno il modo di lavorare. Personalmente, credo che la realtà ci stia imponendo una revisione non drammatica ma sensibile del sistema di vita. Non facciamoci ingannare: la crisi finanziaria ed economica passerà, la recessione finirà, ma in ogni caso il mondo non sarà più quello di prima. Per un po’ di anni, chi oserà indebitarsi a morte per comprare il Suv come succedeva negli Usa negli anni scorsi? Chi si fiderà ancora delle più spericolate speculazioni di Borsa? Chi oserà negare che il risparmio e l’investimento nel mattone, virtù tipiche degli italiani, sono cose da bel tempo antico e non semplici e sane precauzioni? D’altra parte le risorse del pianeta sono vaste ma limitate, mentre intanto si affacciano alla soglia del benessere centinaia di milioni di persone “nuove”: cinesi e asiatici in genere, russi ed europei dell’Est. Vogliono anche loro una fetta del piacere di consumare e sempre più la vorranno in futuro.
      Ripeto un po’, mi rendo conto, il tema del post del 15 novembre (“Col fucile della crisi alla schiena anche gli italiani diventano saggi”). Ma sono convinto che ci toccherà non tanto ridurre i consumi (più di tanto non potremmo, nemmeno volendo) quanto piuttosto cambiare certe abitudini. A molti succederà ciò che è successo a me qualche giorno fa: mi sono guardato intorno, nella mansarda dove lavoro, e ho realizzato che con le mie penne e i miei taccuini potranno scrivere le prossime quattro generazioni. Non credo che questo abbatterà l’industria della cancelleria, di certo mi farà risparmiare qualche euro.     

Per il pezzo di Giampaolo Fabris su Affari&Finanza del 17 novembre 2009:
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2008/11/17/economiaitaliana/014cunsume.html

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

4 Commenti

  1. mirella said:

    Te lo ricordi il vecchio Marcuse? Bisognerebbe rispolverarlo…
    Quello che mi sorprende è che queste cose sono state predicate da sempre dalla sinistra e in particolare dai famigerati noglobal. Non i Caruso e i Casarini, ma quel largo movimento mondiale (con l’adesione di parte del mondo cattolico più sveglio) che molto prima del dell’11 settembre denunciava lo strapotere dell’economia speculativa su quella reale e molte altre cose.
    Ma i no global sono evaporati, la sinistra ha scoperto l’Isola dei famosi e il merito di avere capito tutto va a Tremonti…
    E’ proprio un mondo capovolto

  2. Fulvio Scaglione said:

    Cara Mirella,

    anch’io osservo con stupore certi meccanismi di appropriazione e sostituzione. L’ultimo libro di Tremonti è pieno di suggestioni (para)marxiste ma vedrai che un giorno o l’altro scopriremo che anche Marx l’ha inventato lui.
    Dal mio punto di vista, l’errore (inevitabile, forse) dei no global più seri è stato quello di farsi risucchiare nella superiore capacità mediatica dei Casarini e dei Caruso, che si sono impadroniti della scena.
    D’altra parte, devo confessare una mia certa stanchezza di fondo. Comincio a pensare che, alla fin fine, la cosa più saggia sia aspettare che passi la nottata e che la realtà si incarichi, come appunto sta facendo la crisi, di riportarci con i piedi per terra. Purtroppo certi processi, quando affidati alla forza delle cose, sono sempre più brutali del necessario. Se, come dicono e scrivono in molti, avremo 400 mila precarsi senza lavoro e salario entro Natale, capiremo molte cose sulla gestione dell’economia secondo i guru di Confindustria. Ma lo capiremo a furia di lacrime.
    Ciao, a presto

    Fulvio

    P.S.: come sta il mago Gandalf?

  3. Fabio Cangiotti said:

    Mi inserisco nel dialogo tra due vecchi amici, cui forse mi accomuna un certo disincanto generazionale, per quanto di diverso orientamento. Ad esempio fatico a condividere una qualche simpatia per i “famigerati” no-global, i quali, se sono “evaporati” forse avevano pochi argomenti. Penso che i cattolici più svegli non siano quelli che sono andati a rimorchio di quel mondo, che spesso si è distinto per violenza e rozzezza culturale, e non solo con i Casarini e Caruso nostrani. Basta pensare a come la problematica pacifista sia stata letteralmente sputtanata da uno pseudopacifismo attivo e vivace solo quando c’erano di mezzo Israele o gli Stati Uniti. O in quali ternmini irreali o anche odiosi sia svolta da costoro la pur necessaria critica al capitalismo. Perciò penso che i cattolici che si accodarono supinamente, pur avendo molto da dire in proprio, ma proprio in ragione di questa rinuncia all’espressione personale di una dottrina evidentemente non ben maturata o consapevole, non fossero “svegli” ma piuttosto bradipi o miopi. Dopo l’11 settembre fui in corrispondenza con uno di questi pacifisti cattolici di sinistra, pensatore e teorizzatore della non-violenza.
    Quando scrisse che a suo parere l’11 settembre “non era distruzione, bensì rivelazione”, e quando teorizzò che Bush e Bin laden erano la stessa cosa, è allora che mi sono dimesso dalla sinistra, nel mio piccolo si intende.
    Cordialità

  4. Fulvio Scaglione said:

    Caro Fabio,
    rispondo ovviamente solo per me. Anch’io temo che i no global, presi in generale, avessero frecce limitate al loro arco, anche perché (sempre mio modesto parere) la globalizzazione è un dato di fatto e non una scelta, una conseguenza inevitabile dello sviluppo tecnico e tecnologico (non fu Einstein a dire che l’uomo farà sempre ciò che è tecnicamente possibile fare? Per esempio, investire dagli Usa in giappone con la posta elettronica?) più che una politica. Quindi dire “no” (come no global) non porta molto lontano. E infatti. Resta però il fatto che alcuni utili avvertimenti di quella stagione sono stati non solo ignorati ma addirittura ridicolizzati, e non mi pare che ne abbiamo tratto gran beneficio.
    Capisco le tue dimissioni dalla sinistra. Noto anche, però, che oggi governa Roma un signore (per altri aspetti stimabile, pare) che ancor oggi dice che il fascismo, leggi razziali a parte, tutto sommato … si può fare. non voglio fare una barbosa polemica di schieramenti ma solo dire che, insomma, ogni tanto, vien più che altro voglia di dimettersi da questo tempo. Come per te: nel mio piccolo.
    Ciao, a presto

    Fulvio

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