LA LIVNI IN CRISI, ISRAELE MASCHILISTA: NON CI POSSO CREDERE

       Tutto avrei potuto pensare, tranne che in Israele si tornasse a parlare, in politica, di maschilismo e di questione femminile. Si tratta pur sempre dell’unico Paese al mondo che ha l servizio di leva obbligatorio per le donne (2 anni di ferma). Del sistema politico che nel 2006 ha portato per la prima volta una donna al ruolo di presidente del Parlamento: Dalia Yitzik, 57 anni, già vice sindaco di Gerusalemme e ministro del Commercio, dell’Ambiente e delle Comunicazioni, passata dal Partito Laburista a Kadima quando Ariel Sharon lanciò il nuovo partito. Del sistema giudiziario che ha portato alla presidenza della Corte Suprema Dorit Beinish, 64 anni, una lunga carriera al servizio della giustizia senza alcun timore reverenziale. Negli anni Novanta divenne famosa per due casi emblematici: nel 1992 rifiutò di rappresentare il governo Rabin sul caso di 415 palestinesi di Hamas che dovevano essere espulsi verso il Libano perché molto critica nei confronti dei metodi (secondo lei, troppo “duri”) usati dai servizi di sicurezza durante la prima Intifada; qualche tempo dopo intraprese una vera crociata contro la corruzione in politica, facendo finire sotto processo i dirigenti del partito Shas e l’allora ministro degli Interni Aryeh Derhy.
      Che in un Paese così si potesse far la fronda a Tsipi Livni, ex ministro degli Esteri, da poco eletta segretario del partito Kadima e in procinto di raccogliere da Ehud Olmert il bastone di primo ministro, solo perché donna, mi suonava un po’ sospetto, anche se a sostenere la tesi del maschilismo era Naum Barnea, firma di prestigio del prestigioso quotidiano Yedioth Ahronot. E infatti mica ci credo. Ho invece la sensazione che il successo mediatico della Livni sia stato superiore a quello politico. Anche alle primarie di Kadima la sua vittoria era stata meno netta del previsto, anche a causa di un’affluenza alle urne di partito che è arrivata a stento al 50%. E credo che proprio in quella faticosa affermazione stiano le radici delle difficoltà che ora la Livni incontra nel proporsi come candidata al ruolo di premier. Se i numeri hanno un senso, la situazione è questa: nel 2006, Kadima ebbe circa il 30% dei voti in un‘elezione politica cui andò a votare solo il 57% degli aventi diritto. Ora la Livni ha raccolto il 30% dei voti del 50% degli iscritti a un partito, Kadima appunto, che teoricamente vale il 30% sul 57% degli elettori. Non si può certo dire, insomma, che la Livni abbia le masse dietro di sé.
       E’ vero che in democrazia chi ha più voti comanda. Ma è anche vero che a certi livelli i voti non solo si contano ma pure si pesano. E così quel vecchio marpione di Ehud Barak ha fatto in fretta a percepire la sostanziale fragilità della candidatura della Livni e le ha tirato un trappolone: dopo averle fatto credere che, eliminato Olmert (già azzoppato dalle inchieste per corruzione), l’alleanza Kadima-Laburisti sarebbe andata avanti come prima, si è messo a trattare con Benjamin Netanjahu, leader del Likud (12% alle elezioni del 2006), e a ipotizzare con lui un Governo di unità nazionale.
       Dietro queste manovre una realtà ineludibile: la malattia di Ariel Sharon, e cioè l’ictus che lo ha costretto in un letto d’ospedale subito dopo il varo di Kadima, ha privato il partito della guida più autorevole; Olmert, che in effetti di Sharon era il braccio destro, è inciampato personalmente su una brutta storia di bustarelle e viaggi gratis e politicamente sull’esito infelice della guerra in Libano; la Livni, che di Sharon era la beniamina, è comunque coinvolta nel giudizio poco benevolo che gli israeliani danno del Governo Olmert.
       Barak, come uno squalo, ha sentito odore del sangue e si è gettato sull’occasione. Anche in questo caso, però, non tutto è manovra, non tutto è politica politicata. I dirigenti laburisti non mentono quando dicono che Israele è alla vigilia di sfide enormi e di decisioni fondamentali, e che per le une e le altre serve un governo sostenuto dal più ampio consenso possibile. Tra le sfide, la possibile minaccia nucleare dell’Iran, il confronto con il Libano in cui gli sciiti di Hezbollah sono cresciuti in potere e influenza, la perenne minaccia armata di Hamas. Tra la decisioni, il sempre sospirato trattato di pace con i palestinesi di Cisgiordania e con il regime del moderato Abu Mazen. Non sono questioni da poco. E a molti la figura di Tsipora Malka “Tsipi” Livni, 50 anni, madre di due ragazzi, vegetariana, potrebbe forse non sembrare all’altezza. Anche se dal 2001 è stata ministro di quasi tutto, Giustizia compresa. Anche se prima di lei solo un’altra donna, Golda Meir, era stata ministro degli Esteri. Anche se ha fatto il servizio militare (tenente) e un paio d’anni nel Mossad. Anche se non è un uomo.      
 
 
 
 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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