OLMERT SE NE VA MA ISRAELE RIPARTE

      Sarà anche una crisi, quella che ha portato alle dimissioni posticipate del premier israeliano Ehud Olmert, ma è una crisi vecchia e comunque pilotata. Ad abbattere il premier, altrimenti noto per le sue doti di fondo e resistenza, non sono state le accuse di corruzione, anche se ormai difficili da respingere, ma l’esito e soprattutto la conduzione della guerra in Libano del 2006, definita “disastrosa” dalla Commissione Winograd ch’era stata poi chiamata a indagare. Dei tre protagonisti allora messi alla berlina (il capo di Stato maggiore Haluz, il ministro della Difesa Peretz e lo stesso premier) solo Olmert era riuscito a salvarsi, uscendo però azzoppato dalla polemica. Già nel 2007 Tsipi Livni, allora come oggi ministro degli Esteri, chiese le sue dimissioni con l’appoggio di una manifestazione che mobilitò 100 mila persone. Un mese fa Ehud Barak, leader del Partito laburista e ministro della Difesa, ha mediato l’accordo per cui Olmert già fin d’ora rinuncia alle primarie del Partito Kadima, previste per il 7 settembre.
      Senza un riassunto delle puntate precedenti sarebbe impossibile capire quel che turba un Paese dove il primo ministro se ne va cacciato da amici e alleati di Governo, mentre l’opposizione chiede elezioni che non può ottenere. Un paradosso, che indica però una cosa importante: Israele ora si sente pronto a cercare una via d’uscita dalla lunga fase di sconcerto e autocritica in cui era precipitato dopo l’estate del 2006. La macchina si rimette in moto, insomma. Resta da stabilire come proverà a ripartire e quale direzione sceglierà.
        Gli ultimi mesi del governo Olmert sono stati segnati da un insolito proliferare di contatti in ogni direzione: una tregua con Hamas, una trattativa con la Siria, lo scambio di prigionieri con Hezbollah. Nessuno è riuscito a capire se si trattasse dell’azzardo di un premier disperato (e pronto, peraltro, anche a “firmare” nuovi insediamenti) o di una strategia meditata e condivisa.  Chi scrive era a Gerusalemme nelle ore in cui il terrorista libanese Samir Kuntar veniva rilasciato per le salme dei soldati Regev e Goldwasser. L’atmosfera era carica di emozione, lo scambio era chiesto dalla maggioranza degli israeliani che, allo stesso tempo, lo giudicavano un cedimento a Hezbollah.
       In altre parole: Israele è oggi diviso tra un gran bisogno di pace e un’altrettanto grande sfiducia negli interlocutori, dall’Iran ad Hamas giudicati pericolosi e inaffidabili. Si potranno discutere all’infinito le ragioni degli uni e degli altri. Ma se Israele riprende a muoversi può farlo solo in due direzioni: per irrobustire la rete dei contatti diplomatici coi vicini, puntando a staccarli il più possibile da Teheran e quindi a isolare l’Iran (come in parte è già avvenuto); oppure per rinsaldare le mura e ricostituire (magari proprio a spese dell’Iran) il prestigio della propria forza.
       I candidati alla poltrona di Olmert, da Tsipi Livni a Shaul Mofaz (ex ministro della Difesa) ad Avi Dichter (ministro della Sicurezza) hanno fama di “duri”. La Livni, poi, ha coltivato la sua distillando notizie su una presunta militanza nel Mossad. Anche Ariel Sharon era un “duro”, però ebbe il coraggio di andare contro tutto quanto aveva sempre sostenuto e di ritirare i coloni da Gaza. Ciò che serve, insomma, è la tempra politica, perché a quella militare già pensano i generali. Per questo potrà essere decisivo, più che il duello interno a Kadima, l’esito delle presidenziali americane. L’atteggiamento della nuova Casa Bianca peserà molto sulle decisioni di Israele, soprattutto se lo Stato ebraico avrà la sensazione di trovare in essa un interlocutore privilegiato come sempre ma più presente e competente di prima.

Pubblicato su Avvenire del 1 agosto 2008   http://www.avvenire.it

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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