Sono reduce da un viaggio in Israele, causa del “buco” nell’aggiornamento degli argomenti. Ne valeva comunque la pena perché, come sempre, due sensazioni emergono con nettezza. La prima: andare sui posti è condizione essenziale per scriverne. Banale regola base del giornalismo, è vero, ma anche un principio sempre meno osservato, qualche volta addirittura snobbato. La seconda: che bello uscire, anche solo temporaneamente, dalla mediocrità del dibattito politico italiano.
Sono stato sul confine Nord tra Libano e Israele il giorno prima del famoso scambio di “prigionieri”. A Nahariya, la piccola città da cui veniva Ehud Goldwasser (con Eldad Regev uno dei due soldati rapiti nel 2006 da Hezbollah, e restituiti in una bara in cambio di Samir Kuntar e altri terroristi e guerriglieri), solo qualche segno di quanto stava per avvenire: pochi cartelli, attaccati qua e là ai lampioni, con le foto di Goldwasser e Regev, e nulla più. E Nahariya è la città in cui ancora vive la famiglia di Goldwasser, in particolare la vedova Karnit. A Rosh Hanikrà, il posto di confine dove poi è avvenuto il vero e proprio scambio, solo turisti in visita alle stupende grotte scavate dal mare nella scogliera.
Tutto questo non è un caso. Israele ha vissuto come un dolore insopportabile lo scambio e la liberazione di Kuntar, e come una drammatica sconfitta le manifestazioni di giubilo che hanno accolto, in Libano, il ritorno dei terroristi e dei guerriglieri. Il secondo aspetto è, a ben vedere, il meno importante. La sconfitta risale al 2006, a quella guerra mal preparata e mal condotta di cui Hezbollah ha poi saputo approfittare. Anche lo stretto legame tra Hezbollah e i vertici politici del Libano in funzione anti-israeliana non risale a questi giorni, e nemmeno al conflitto dell’estate 2006. Il 24 aprile, che in Libano è festa nazionale in quanto Giorno della Liberazione (da Israele, naturalmente, che occupò in vario modo il Paese dal 1982 al 2000), è ormai un omaggio a Hezbollah, ufficialmente riconosciuto come l’artefice primo della resistenza.
E’ l’aspetto del dolore di Israele quello da esaminare. I giornali, tutti, senza alcuna distinzione, hanno parlato per giorni di Goldwasser e di Regev come di due persone vive, anche se i servizi di sicurezza e l’esercito avevano da molto tempo fatto sapere che i due giovani dovevano essere considerati morti con altissima probabilità. Divisa l’anima del Paese anche sotto un altro aspetto: a questo scambio si è arrivati soprattutto grazie all’attivismo delle famiglie dei due soldati, che non hanno mai smesso di sollecitare l’attenzione del Governo, dei comandi militari e dell’opinione pubblica. I servizi di sicurezza e i vertici dell’esercito, temendo che il rapimento di soldati possa diventare un nuovo sistema per far scendere a patti Israele e la sua potenza militare, hanno con coerenza sempre sconsigliato lo scambio. Il fatto notevole è che gli israeliani con la ragione hanno recepito lo scambio come un errore strategico e una sconfitta sul campo, mentre con il cuore l’hanno non solo accettato ma considerato inevitabile.
Ne è scaturito un doppio senso di frustrazione e di cordoglio nazionale che ha investito tutta la nazione. Le lacrime che uomini politici duri e navigati come il premier Olmert e il presidente Peres hanno versato sulle bare dei soldati esprimevano, per una volta, un innegabile stato d’animo collettivo. Anche in questo, però, si è potuto valutare lo scarto (politico, intellettuale, spirituale) che scava la differenza tra Israele e i palestinesi e che impedisce a questi ultimi, in definitiva, di difendere in modo più efficace i propri diritti.
E cioè: Israele ha un progetto, un proposito, un fine, che si definisce di per sé, giusto o sbagliato che uno possa ritenerlo. Ovvero, costruire e difendere lo Stato ebraico, lo Stato degli e per gli ebrei. L’identità palestinese, purtroppo, ancor oggi si definisce in gran parte in opposizione al progetto degli ebrei. Certo, il problema non è tutto qui. Ma questo è un fattore importante e, a mio modo di vedere, decisivo fin dalle origini della questione che da un secolo bagna di sangue il Medio Oriente. Per superare questo handicap i palestinesi dovrebbero rinunciare una volta per sempre al mito della sparizione di Israele. Lo Stato degli ebrei è lì e ci resterà per sempre, pensare di abbatterlo o di vederlo dissolversi vuol dire solo consegnarsi all’assenza di futuro. Se non si liberarà di questo opprimente fantasma, il popolo palestinese continuerà a vivere nella provvisorietà, nell’attesa perenne di un evento “salvifico” ed escatologico, e non potrà mai metter mano davvero alla costruzione del proprio futuro, del proprio Stato, del proprio benessere. Avremo tempo e modo di tornare sull’argomento.
Caro Scaglione, tutto giusto, in particolare l’ultima parte dell’articolo dove lei evidenzia lo scarto, la differenza tra Israele e i palestinesi, in una vicenda che ancora una volta ha dimostrato quale abisso di etica e comportamenti ci sia (ahimè)tra le due entità in campo. Quanto a Kuntar, c’è nel web una sua foto dopo la liberazione in cui appare in tuta mimetica salutando la folla con la mano tesa, e siccome ha i baffetti, non è difficile vedere chi ricorda, in modo impressionante… Dispiace che tanti italiani e tra questi tanti cattolici anche di mia conoscenza conoscano poco e male queste vicende, accontentandosi di giudizi sommari o ideologici o superficiali sulla situazione del Medio Oriente; dico questo perchè ho l’impressione che prima o poi saremo costretti tutti a saperne di più.
Attendo quindi suoi nuovi scritti sulla questione, magari su Famiglia Cristiana. Cordialità
Caro Cangiotti,
per prima cosa grazie per l’attenzione a questo blog. Su Famiglia Cristiana scriverò alcune cose nelle prossime settimane, essendo appena tornato da Israele. Quanto al fatto che “prima o poi saremo tutti costretti a saperne di più”: sono al 100% d’accordo ma temo che gli italiani ormai si siano così abituati alle risposte fast food, premasticate, che nemmeno più capiscano che per giudicare bisogna sapere e per sapere occorre studiare. Boh, speriamo in bene…
Saluti
f.s.